Alla fine questa manche l’ha vinta Theresa May: si va avanti con il suo piano, per ora l’unico piano, per uscire dall’Unione europea e rispettare la volontà degli elettori. Gli euroscettici che le stavano alle costole hanno dimostrato di sapere fare poco altro, oltre che starle alle costole e criticarla senza avere una visione chiara. Per quanto il Paese sia diviso e volubile, per ora il pragmatismo prevale. L’ipotesi di precipitare nella confusione di un no deal spaventa troppo anche i deputati Tories, di cui solo 25 circa sui 48 necessari hanno inviato una lettera di sfiducia contro la loro leader, mettendo in serio imbarazzo chi, come il presidente dello European Research Group, think tank euroscettico con un certo seguito e poche idee, Jacob Rees-Mogg, aveva solennemente annunciato davanti alla porta di Westminster che la premier sarebbe stata detronizzata da lì a poco. Uno spettacolo, quello della May aggredita da una muta di uomini inferociti, che non è piaciuto alla gente, che nel giro di una settimana ha cambiato di molto il suo atteggiamento nei confronti dell’inquilina di Downing Street: in pochi giorni la percentuale di coloro che vogliono che resti è passata dal 33% al 46%.
Ora bisogna solo chiudere tutto il prima possibile con Bruxelles per arrivare all’appuntamento del voto parlamentare di metà dicembre consolidando quel rafforzamento che la May ha saputo ancora una volta operare in tempi rapidissimi. Non è la prima volta che esce da una crisi che a tutti appare terminale e con queste premesse anche l’ipotesi di raccogliere i voti necessari nel voto in agenda l’11 dicembre prossimo non appare del tutto peregrina: da garante di una pace un po’ narcotica all’interno dei Tories, Theresa May è diventata negli ultimi mesi la donna delle missioni impossibili. Calcolatrice alla mano, non ci dovrebbe riuscire, ma in tempi come questi è difficile fare previsioni.
Gli irlandesi del Nord del DUP, sui cui dieci deputati si regge la maggioranza a Westminster, hanno detto che non voteranno il testo in protesta per il «backstop» irlandese, ossia la misura temporanea per evitare una frontiera fisica tra le due parti dell’isola in attesa che venga negoziato un accordo definitivo sul futuro post-Brexit. Con la soluzione proposta, che si potrà interrompere solo con il consenso congiunto di Londra e di Bruxelles, il Regno Unito resta parte dell’unione doganale mentre l’Ulster anche del mercato interno, che vuol dire che avrà delle regole diverse da quelle vigenti nel resto del paese. Il DUP è pronto a rompere l’accordo, ma la May potrebbe racimolare qualche voto tra i Labour delusi dall’indecisione del leader Jeremy Corbyn, uno che ha detto che non saprebbe cosa votare a un eventuale secondo referendum.
Secondo referendum che appare come un’ipotesi sempre meno lontana, anche se estremamente difficile da fare nella pratica: i tempi sono quelli che sono e per gli europeisti, che contano nelle loro file personaggi di primo piano come la pugnace deputata Tory Anna Soubry e una delle eterne promesse del Labour Chuka Umunna, oltre alla simpatia di pubblicazioni come «The Economist», «Financial Times» e altri, occorre che l’allineamento astrale sia perfetto per poter procedere.
Anche perché i sondaggi sono ancora troppo indefiniti e incerti – con un vantaggio inferiore ai dieci punti per il «remain» – per dirigersi con sicurezza ad un secondo voto, considerando che ci dovrebbero essere tre possibili scelte e non due come il 23 giugno del 2016: accordo della May, no deal o permanenza nella Ue. L’impatto economico delle tre ipotesi verrà rivelato questa settimana con la pubblicazione di un documento che fino ad ora il governo ha voluto tenere per sé ma che, grazie alla pervicacia di Soubry e Umunna, sarà finalmente a disposizione di tutti.
Londra non è l’unica capitale irrequieta, quando si tratta di Brexit. Risolti i problemi di Downing Street e fugato almeno per ora ogni rischio di crisi di governo, dalle altre cancellerie sono arrivate un po’ di perplessità e di richieste che hanno indispettito la leader tedesca Angela Merkel, la quale ha minacciato di non presentarsi al vertice di domenica a Bruxelles qualora non ci fosse un testo già pronto da approvare sulle relazioni future tra il Regno Unito e il blocco europeo, oltre a quello di 585 pagine sulla Brexit, già firmato anche da Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue che la May è andata a trovare mercoledì scorso per mettere a punto gli ultimi dettagli. Testo che prontamente è comparso in forma di una bozza preliminare di 26 pagine e che contempla una partnership «ambiziosa, ampia, profonda e flessibile» che include tutto, da una vasta liberalizzazione commerciale a una «cooperazione operativa» tra le forze di sicurezza. Vago, aperto a interpretazioni: in una parola, perfetto.
Tra gli ultimi nodi da sciogliere per poter firmare l’accordo nella mattinata di domenica a Bruxelles c’era quello di Gibilterra e delle proteste del governo di Madrid che non voleva che il problema della rocca fosse incluso nella dichiarazione finale, esigendo un negoziato separato. I diplomatici europei hanno definito la questione più che legittima, ma il rischio di un veto spagnolo sul testo ha preoccupato più delle pretese francesi, olandesi, danesi e belghe sulla pesca. La May ha parlato con il premier spagnolo Pedro Sanchez, riferendo di un «accordo nell’accordo di uscita e nel memorandum of understanding allegato su Gibilterra». La Merkel, saggiamente, aveva previsto anche l’intenzione di Londra di cercare di spingere per quegli scambi commerciali «senza frizioni» descritti nel piano dei Chequers l’estate scorsa e bollati come inaccettabili da più di un paese. Sia la Francia che l’Italia, infatti, non vogliono che al Regno Unito sia permesso di portare a termine il piano di mantenere ampie porzioni del mercato interno senza dover ottemperare ai suoi doveri in materia di libera circolazione dei cittadini.
Perché alla fine questa è, la Brexit nell’interpretazione di Theresa May: uno stop all’immigrazione di giovani continentali, fenomeno che ha dato molto al Paese ma che ha tanto irritato le fasce meno competitive e meno cosmpolite della società britannica. Lo ha detto chiaro e tondo tra le boiseries di Downing Street quando, il 15 novembre scorso, al termine di una giornata di fuoco, ha voluto mostrare di essere capace di rimanere in sella enunciando i punti più importanti dell’accordo raggiunto e poi, qualche giorno dopo, quando davanti alla platea della confindustria britannica, la CBI, ha detto che il sistema futuro sarà basato «sulle competenze» e non permetterà agli europei «di saltare la coda» come avvenuto fino ad ora.
Parole irritanti, che infatti hanno infuriato tutti in Europa, ma che hanno permesso alla May di fare piazza pulita dall’accusa di essere troppo morbida verso l’Unione europea e gli europei. Anche quando questi portano un’energia, una produttività e, non ultimo, un gettito fiscale nelle casse dello Stato che meriterebbero un sentito «grazie». Ma non sono tempi adatti alla gratitudine, questi.