Qualche tempo fa un amico che non vedevo da anni mi ha chiesto di passare a trovarlo. Adesso viveva – come diceva lui – a Big Smoke e non mi sarei pentito della deviazione, ne era sicuro. Alla fine incuriosito ho accettato di fare un salto.
Big Smoke era stata un remoto avamposto dell’Impero romano ma i suoi fondatori non l’amavano molto per via del clima. Secoli fa gli abitanti del luogo, popolazione di navigatori, erano noti per la loro avidità e il coraggio in battaglia, grazie al quale fondarono un vasto impero. A Big Smoke le culture si incontrano e si mescolano: qui potete vedere un film in un cinema francese e poi cenare in un autentico ristorante italiano. Già sull’autobus, del resto, sento parlare le più diverse lingue e tra esse l’arabo, naturalmente. Intorno a me siedono uomini dalla pelle scura e donne con ampie vesti; alcune indossano il velo integrale (niqab), con solo una stretta fessura per gli occhi. Sui marciapiedi numerosi mendicanti e senza tetto chiedono l’elemosina. Davanti a una moschea decorata con piastrelle colorate i fedeli fanno la fila. Ora la situazione è più tranquilla, ma non molto tempo fa degli attacchi suicidi hanno seminato il terrore.
«Benvenuto a Londra!». Così il mio amico mi accoglie alla fermata dell’autobus. Non ricordavo quanto questa meravigliosa città fosse multietnica e cosmopolita. Ma sarà ancora così in futuro? Per la Brexit è giunta l’ora della verità e la tensione è palpabile. Il giorno del mio arrivo quattro membri del governo May hanno rassegnato le dimissioni e forse non è finita qui; lo stesso Primo ministro potrebbe essere presto messo in discussione, anche con nuove elezioni. La notizia ha provocato un forte calo nel valore della sterlina e la quotazione delle banche è andata a picco. Fuori da Downing Street e Westminster decine di persone hanno manifestato.
Per una curiosa coincidenza quando nel giugno 2016 il referendum vide prevalere di stretta misura (51,9 per cento) i favorevoli all’uscita dall’Unione europea, ero proprio nel Regno Unito, in navigazione tra le isole Orcadi e Shetland, e guardando in faccia i miei compagni di viaggio ebbi subito l’impressione che nessuno volesse veramente quel risultato. Ma il dado è tratto e ora siamo alle prese con le conseguenze di quelle scelte, in ogni campo.
Naturalmente l’economia attira molta attenzione su di sé: le croci sulle schede di 638mila britannici o lo 0,008 per cento dell’umanità – la differenza decisiva fra Remain e Leave – hanno messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi su tutti i mercati finanziari del pianeta. Secondo l’ultimo indice Z/Yen Global Financial Centres, la City di Londra non è più il principale centro finanziario del mondo, superata da New York. Ma le conseguenze saranno rilevanti anche per i viaggiatori. La mia carta d’identità italiana stropicciata è stata ancora accettata al controllo doganale dell’aeroporto, ma potrebbe essere l’ultima volta; poi servirà il passaporto, anche per gli inglesi diretti verso il continente.
Quando nell’Ottocento gli inglesi cominciarono a sciamare per tutta Europa e nel Mediterraneo, nessuno possedeva un passaporto. Quando Phileas Fogg, l’eccentrico inglese creato dalla penna di Jules Verne, parte per Il giro del mondo in ottanta giorni porta con sé un passaporto al solo scopo di permettere ai suoi compagni di club, con i quali ha scommesso una fortuna, di controllare l’itinerario effettivamente seguito, grazie ai diversi visti.
L’obbligo del passaporto fu introdotto in Inghilterra solo durante la Prima guerra mondiale, per controllare i movimenti dei viaggiatori, e poi mantenuto. Prima del 1915 però il governo di Sua Maestà non richiedeva un passaporto per lasciare il Paese, né alcuno Stato europeo lo richiedeva per aprire le sue frontiere, tranne due Paesi notoriamente dispotici quali la Russia e l’Impero ottomano. Nel periodo tra le due guerre, lo scrittore Norman Douglas lamentava apertamente il «fastidio del passaporto» e il giornalista Charles Edward Montague ricordava con rimpianto il tempo quando «l’Europa era aperta ai piedi girovaghi… Tutte le frontiere erano spalancate. Si poteva vagare liberamente per il continente, come se fosse stato il proprio Paese. Moltissimi di noi avevano percorso Francia, Italia, Svizzera e Paesi Bassi per venti o trent’anni senza sapere che aspetto avesse un passaporto».
Certo, questa libertà di movimento aveva anche dei risvolti di classe. Per esempio quando le gran di navi di linea arrivavano a New York scivolavano accanto alla Statua della libertà per poi attraccare sul fiume Hudson. Lì, i passeggeri di prima e seconda classe sbarcavano dopo minime formalità, sbrigate a bordo, mentre solo gli emigranti più poveri venivano portati sulla vicina Ellis Island per essere sottoposti alla visita medica e al controllo dei documenti. La maggior parte di loro, comunque, veniva accolta, se oggi il 40 per cento della popolazione statunitense conta un antenato passato per Ellis Island.
Con l’Unione europea, il passaporto sembrava diventato un residuo del passato, ma ora potrebbe tornare di moda. In attesa di capire come andrà a finire, le autorità inglesi hanno confermato che a partire da marzo 2019 il passaporto dei sudditi di Sua Maestà tornerà blu, com’è stato per sessant’anni, dal 1921 al 1981, quando l’Europa ha imposto il rosso porpora. Il parlamentare conservatore Andrew Rosindell ha affermato che «l’umiliazione di avere un passaporto dell’Unione europea sarà presto finita e i cittadini del Regno Unito potranno ancora una volta provare orgoglio e fiducia in se stessi e nella propria nazionalità quando viaggiano, proprio come gli Svizzeri». Ma non tutti condividono la sua soddisfazione…