GB – Al tempo di Trump e Putin, dell’impero cinese e dell’avanzata islamica, fare a meno dell’Europa è un errore. Anche per gli inglesi
C’è una sola ragione per cui il sistema politico inglese ancora regge, sia pure a fatica: il sistema elettorale, lo stesso da secoli. I due partiti-architrave del sistema, il conservatore e il laburista, si sarebbero divisi già da tempo tra europeisti e anti-europeisti, tra Remainers che vorrebbero restare nell’Unione e Leavers che vorrebbero andarsene, se gli eventuali scissionisti non fossero condannati a non rientrare in Parlamento con i collegi uninominali, pur prendendo un sacco di voti. Ma vediamo quel che sta accadendo, e quel che potrebbe accadere.
L’accordo tra Londra e l’Europa non esiste più. Eppure proprio i fatti drammatici di queste settimane confermano che l’Europa è ineluttabile. La si può e la si deve cambiare, riformare, rifondare; ma l’Europa è più che mai un destino comune. Pure per gli inglesi, che non riescono a lasciarla, e non lo faranno mai del tutto.
La settimana di dibattito a Westminster, ai primi di dicembre, è stata un esame di coscienza collettivo. L’autobiografia di una nazione, avrebbe detto Gobetti. Aperta da un voto storico, in cui molti conservatori si sono uniti all’opposizione per censurare il governo e accusarlo di aver mancato di rispetto al Parlamento. La colpa di Theresa May era di non aver pubblicato integralmente i documenti della trattativa con l’Europa. Subito dopo i Comuni hanno approvato una mozione che consente loro di modificare il «deal», l’accordo con Bruxelles, vanificando la strategia della premier, basata sull’alternativa «o accordo o nulla». In due mosse il Parlamento britannico ha confermato la propria centralità; proprio nelle ore in cui a Parigi la polizia ricorreva a ogni durezza per reprimere la rivolta di piazza, in Germania gli assetti politici cambiavano non al Bundestag ma in un congresso di partito, e in Italia la Camera era chiamata a votare la fiducia a una manovra immaginaria, restando quella vera ancora da scrivere. In sostanza, il Paese che ha inventato il Parlamento ha ricordato al mondo che la democrazia rappresentativa rimane la peggior forma di governo, tranne tutte le altre.
Esiste però anche la democrazia diretta. Che si è espressa con il referendum del 23 giugno 2016. Dal dibattito, cui hanno partecipato direttamente o indirettamente le principali istituzioni finanziarie e culturali del Paese, è emerso con chiarezza che la classe dirigente britannica considera la Brexit un pasticcio che può diventare un disastro. L’hanno capito anche molti che la Brexit l’avevano sostenuta, magari per cavalcare la tigre del malcontento popolare, da Boris Johnson allo stesso Jeremy Corbyn, sempre molto tiepido sull’Europa per non precludersi la chance di conquistare Downing Street.
Però le ragioni che hanno indotto il 52% a votare per il Leave sono ancora lì, intatte. A cominciare dalla più importante: la tutela del lavoro, della specificità, dell’identità britannica. Londra non è più una città inglese ma la capitale del mondo multiculturale; infatti Londra è contro la Brexit; ma gran parte del Paese non riconosce più la propria capitale, così com’è diventata. Molti sono contrari alla libera circolazione dei lavoratori, arrivati a centinaia di migliaia dal Sud e dall’Est dell’Europa, in particolare da Italia e Polonia. Molti, ancora scossi dalle immagini della giungla di Calais abitata da africani in attesa di passare la Manica, temono che i flussi migratori arrivino fin qui. Più in generale, l’Europa è pensata come una gigantesca costruzione burocratica in mano ai tedeschi; e molti inglesi non vogliono saperne di obbedire al popolo che hanno sconfitto in due guerre mondiali.
Eppure uscire dal mercato comune europeo non conviene neppure a loro. Ridurre l’interdipendenza finanziaria non è certo nell’interesse della più grande fabbrica di ricchezza, la City. Ostacolare l’arrivo di studenti dall’Europa penalizzerebbe la seconda industria di Londra, l’istruzione. Fermare i lavoratori d’oltremanica danneggerebbe le multinazionali della ristorazione e dei servizi. Infine, toccare la frontiera tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda, che resterebbe in Europa a pieno titolo, significa evocare il fantasma di una guerra secolare; e proprio su questo scoglio si è arenata la May.
A rendere ancora più interessante la questione è la parabola di Nigel Farage. Il paladino della Brexit è uscito dal partito che lui stesso aveva fondato, in polemica con la deriva di estrema destra. Farage è un nazionalista britannico, ma è anche un sincero liberale. In ufficio ha la foto di Margareth Thatcher. Un movimento xenofobo e antislamico non gli interessa; il suo obiettivo resta dividere i conservatori e rifondarli su basi antieuropee. Non ci riuscirà; ma è consolante pensare che pure il populismo trova in Inghilterra un suo «modus», un metodo, un limite.
A questo punto può succedere di tutto. Un nuovo accordo. O anche un nuovo referendum. Ma una cosa è chiara: se non sarà possibile un ripensamento, una qualche forma di legame con l’Europa è inevitabile. E questo dovrebbe far riflettere gli anti-europei italiani. All’uscita dall’euro i 5 Stelle sembrano aver rinunciato. La sovranità monetaria rimane il sogno proibito di qualche apprendista stregone della Lega. Ma Salvini non parla più di far saltare l’Europa, semmai di riorientarla sull’asse popolare-populista, sostituendo i socialisti come partner di un’alleanza meno ossessionata dall’austerity e più attenta alle identità nazionali e agli interessi dei ceti produttivi. È un progetto che può rivelarsi una velleità, di fronte alla tenuta tedesca. Di sicuro, al tempo dei Trump e dei Putin, dell’impero cinese e dell’avanzata islamica, pensare di fare a meno dell’Europa è un errore che neanche gli inglesi possono permettersi.
A meno di ulteriori e improbabili rinvii, il prossimo 21 gennaio il Parlamento voterà sul «deal» rinegoziato in extremis dalla May. La premier è sopravvissuta a una mozione di sfiducia interna al suo partito, che non potrà essere ripresentata per un altro anno. In questo modo ha guadagnato tempo, ma ha dovuto umiliarsi assicurando che non sarà lei a guidare il partito conservatore alle prossime elezioni. Una vittoria di Pirro, insomma. Difficilmente la May potrà restare a lungo a Downing Street se la sua linea fosse battuta nettamente. La possibilità di voto anticipato non va esclusa: Corbyn ci spera; ma il suo partito è diviso, l’ala blairiana non lo sopporta. È anche possibile, e forse auspicabile, che gli inglesi prima di eleggere il nuovo Parlamento siano chiamati a votare di nuovo sulla Brexit. Riparare al danno compiuto è difficilissimo, ma non impossibile.