A Natale Donald Trump ha finalmente reso visita alle sue truppe al fronte: era la prima volta da quando è presidente, un ritardo di due anni che aveva suscitato polemiche. Ha scelto l’Iraq, forse perché l’unico teatro dal quale non ha annunciato il ritiro. Ma anche in quell’occasione, parlando di fronte ai propri militari, ha ribadito con forza una delle sue certezze: «L’America non sarà più il gendarme del mondo». Solo dieci giorni prima, al termine di un duro scontro coi suoi militari, aveva annunciato un duplice disimpegno: totale dalla Siria, parziale dall’Afghanistan.
«Cinque anni fa l’Isis era una forza potente e pericolosa, oggi gli Stati Uniti hanno sconfitto il Califfato». È con questo annuncio trionfalista del 19 dicembre che Trump rivela la prima delle sue mosse. Con uno stile che gli è congeniale, dichiara vittoria e lascia il terreno: ordina il ritiro rapido e totale degli ultimi duemila soldati americani rimasti in Siria. Si chiude un capitolo di storia, drammatico ma breve, di coinvolgimento americano su un teatro di guerra che non ha risparmiato le atrocità, le stragi di civili, l’uso di armi chimiche, l’esodo in massa di una parte consistente della popolazione, ondate di profughi diretti anche verso l’Italia e altri paesi europei. Torna a dettar legge in modo esclusivo chi ha sempre comandato in quell’area: il carnefice Assad, il suo protettore Vladimir Putin, affiancati dal regime degli ayatollah iraniani.
Sconfitto l’Isis? Non del tutto; anche se certamente è ridotto ai minimi termini rispetto alla minaccia terrificante che rappresentava cinque anni fa. Il Pentagono ha tentato invano di dissuadere Trump dal ritirare tutte le truppe, le discussioni tra i militari e il capo dell’esecutivo sono state tempestose. I militari americani temono di abbandonare al loro destino i loro alleati curdi, che hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta contro l’Isis, e contro i quali adesso può scatenarsi senza ritegno la furia di Erdogan che li considera «terroristi» (in quanto alleati dei curdi di casa sua, che nutrono sogni di autonomia sempre repressi da Ankara). La Turchia ha già annunciato un’imminente offensiva militare contro le milizie curde in Siria, gli americani tolgono il disturbo al momento giusto. Ci sono anche quei ribelli arabi non islamisti che hanno combattuto sia l’Isis sia Assad, e vengono abbandonati. Nessuno sembra curarsene.
In realtà la Siria aveva smesso di «esistere» da tempo, per le opinioni pubbliche occidentali, vittima di una congiura del silenzio che ha tante cause. Trump è coerente con se stesso, aveva sempre detto di voler lasciare la Siria a Putin. Damasco è nell’area d’influenza di Mosca da quasi mezzo secolo; divenne un avamposto mediorientale dell’Unione sovietica con la costruzione della prima base militare all’inizio degli anni Settanta.
Barack Obama fu protagonista di un tentativo – maldestro e contraddittorio – di porre fine alle stragi di Assad. La sua famigerata «linea rossa» da non varcare, contro l’uso di armi chimiche, venne violata impunemente dal regime siriano con la copertura della Russia. Obama ne uscì male, come in tutta la vicenda delle primavere arabe, alternò sprazzi di idealismo, d’interventismo umanitario, e ripieghi tattici verso la realpolitik più tradizionale. Trump dileggiò le esitazioni di Obama, e disse apertamente in campagna elettorale che la lotta all’Isis voleva appaltarla ai russi. Trump ordinò una breve pioggia di missili per castigare Assad dopo un’altra strage chimica – una dimostrazione di potenza, spettacolare ma innocua: i russi erano stati avvisati in anticipo sulla traiettoria dei missili. Poi l’impegno americano è stato gradualmente ridimensionato, fino all’annuncio di questo 19 dicembre sul ritiro definitivo e totale.
Intanto sulla Siria era calata una spessa coltre di silenzio già da tempo. Perché questo cessato allarme? I combattimenti certo si sono attenuati, ma non sono cessati del tutto. Gli abusi contro i diritti umani non fanno più notizia, se non c’è qualche filiera che li riconduca alle responsabilità dell’Occidente. È un antico riflesso pavloviano, un tempo prerogativa delle sinistre, quell’attenzione a senso unico. Oggi fa comodo anche ai sovranisti di tutto il mondo che le malefatte di Putin in quell’area siano così poco osservate, ancor meno denunciate. Se non ci sono le impronte digitali dell’America sugli orrori, ecco che smettono di fare notizia, o vengono minimizzati, semi-invisibili dietro una nebbia di distrazione e indifferenza. Si può anche aggiungere che per i reporter occidentali è più difficile l’accesso alle zone di guerra, se in quelle aree comandano «gli altri». E dunque c’è penuria d’informazione.
Tutto ciò accade in un contesto di ritirata più generale dell’America. Il petrolio arabo non le serve più; ora esporta il suo, per la prima volta da 75 anni. È uno degli sconvolgimenti più sottovalutati del nostro tempo, questa rivoluzione energetica che ha portato gli Stati Uniti all’autosufficienza. Significa che le flotte militari Usa nel Mediterraneo, Golfo Persico e Oceano Indiano, presidiano rotte petrolifere vitali per l’Europa, l’India, la Cina, il Giappone; ma non più per gli Stati Uniti.
Netanyahu e il principe saudita MbS da una parte; Putin, Khamenei e Erdogan dall’altra, possono spartirsi le spoglie di quel che rimane di un’area d’influenza americana. I primi due sgomitano per il ruolo di proconsoli, con delega a rappresentare in Medio Oriente un’America in fase di isolazionismo. Russia Iran e Turchia, imperi tradizionali con pulsioni egemoniche antichissime, godono della ritirata americana che considerano una magnifica opportunità. I diritti umani finiscono nel cono d’ombra, più che mai.
La ritirata di Trump ha un risvolto di politica interna importante e traumatico: lo strappo coi suoi militari. Il generale a quattro stellette Jim Mattis, da segretario alla Difesa fu definito «l’adulto di guardia alla Situation Room»; «l’ultima barriera tra l’America e il caos». Se ne va, ultimo di tre generali ad abbandonare il presidente americano in due anni. La sua partenza dal punto di vista di Trump è ordinaria amministrazione: fuori un altro, da una Casa Bianca dove tutti sembrano apprendisti con contratti a termine di brevissima durata. Trump è già concentrato su un’altra emergenza, il suo ultimatum al Congresso: «O mi finanziate il Muro col Messico, o rifiuto di firmare la legge di bilancio e andremo a una lunga serrata degli uffici pubblici per mancanza di fondi».
Lo strappo senza precedenti è con i vertici militari al gran completo, solidali con Mattis nel condannare l’abbandono della Siria. Manda un segnale tremendo a tutti gli alleati, di cui Mattis difendeva l’importanza. Conferma che la sua visione di America First non è solo nazionalista, sovranista, protezionista. È anche il ritorno all’isolazionismo che precedette l’intervento nella seconda guerra mondiale; apre spazi enormi ai rivali dell’America, Cina Russia Iran.
Trump fa quello che aveva promesso. Basta con l’America «gendarme del Medio Oriente, senza ricavarne alcunché». Così ha spiegato il ritiro degli ultimi duemila soldati dalla Siria, e poi l’altro annuncio che riguarda il ritorno di settemila militari dall’Afghanistan (significa dimezzare quel contingente). La linea isolazionista è coerente, lo si potrebbe perfino scambiare per un pacifista: non fosse per il vigoroso aumento delle spese in armamenti, o per la scelta del superfalco John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale.
Mattis nella lettera di addio si definisce «lucido nel vedere gli attori ostili», e convinto che si debba «trattare gli alleati con rispetto». La rottura col presidente è su due costanti della strategia americana: una forza costruita sulle alleanze, e la determinazione nel tener testa agli avversari strategici, Russia e Cina. Nell’analisi dei vertici militari Trump svende la leadership Usa, liquida un’egemonia, chiude frettolosamente un «secolo americano» fatto di investimenti in hard power e soft power. Apre varchi ai nemici di sempre, crea le condizioni di un indebolimento durevole.
Non tutte le dimissioni sono eguali. Questa nasce da uno strappo tra il presidente e uno dei poteri forti più legati alla proiezione imperiale degli Stati Uniti. I generali americani non sono stati formati alla resa. I generali vedono un disegno di lungo periodo che li angoscia. In Estremo Oriente: col Giappone e la Corea del Sud a cui Trump ha detto che toglierà le truppe americane se non riducono gli avanzi commerciali; in Europa e in Canada con gli alleati Nato irrisi; infine in Medio Oriente; Trump smantella un pezzo alla volta un vasto impianto d’influenza mondiale. L’establishment militare non può tollerare una ritirata simile, che si svolge nel caos e nell’improvvisazione, senza contropartite e senza un disegno alternativo. Già altri due generali della squadra iniziale se n’erano andati, McMaster dal National Security Council e Kelly dal ruolo di chief of staff.
Il Deep State, quel termine che la destra trumpiana usa per evocare complotti di una «cupola» dell’alta amministrazione pubblica contro un presidente-outsider, in questo caso esiste davvero. E non è un’amministrazione pubblica «obamiana» che sabota un presidente repubblicano. I tre generali che lui ha bruciato in un biennio erano tutti di destra, perfino trumpiani su certi temi. Un bel pezzo di establishment militare si starà anche interrogando sul Russiagate, si chiederà se l’idea di una collusione con Putin non sia diventata più verosimile alla luce del regalo siriano. Putin è l’unico ad avere applaudito il ritiro delle truppe Usa dalla Siria.