Viaggiatori d’Occidente - Ai confini d’Europa verso Plovdiv, assieme a Matera Capitale europea della cultura 2019
Trace è stato il cuore bulgaro. Terra sul limite dell’Europa, la Tracia storica dalla Bulgaria straripava in Grecia e Turchia. I Traci: un popolo di barbari inventori d’Orfeo e dei riti orfici, i precursori degli omaggi a Dioniso e poi a Bacco. Le loro femmine erano streghe proverbiali. Di vere città, quelle tribù ne hanno create poche. La storia più antica di Bulgaria è un viaggio tra i sepolcri; si scorgono da lontano, tumulati sotto collinette, come usava nelle pianure che da qui giungono fino ai confini della Cina, al modo degli antichi Indoeuropei, i primi cavalieri della steppa.
Anche i Traci erano indoeuropei, come noi. Proprio nel centro del paese, nella zona di Kazanlak – a maggio sfoggia i colori delle rose, dalle quali si ricava un’essenza tra le più pregiate al mondo – di tombe di notabili ce ne sono centinaia: è la Valle dei Re traci. Una, in un parco cittadino, è patrimonio Unesco. Se ne visita la copia, costruita esatta accanto all’originale.
Nell’entrata a vetri, un vecchio con un berretto in testa e una scarpa rotta mi si presenta in una nuvoletta alcolica dicendo d’essere il custode d’un tempo. Ora è in pensione, ma non può fare a meno di venir qui tutti i giorni. Dopo più di cinquant’anni qua sotto, azzarda, avrebbe tutto il diritto di far parte del corteo funebre degli affreschi ellenistici del IV sec. a.C., dipinti lungo questo corridoio e sulla cupola della camera funeraria, tra cavalli, bighe e banchetti. Parla per un’ora, come solo chi è alticcio sa fare, della finezza dei gioielli, dei crateri e degli ori ritrovati coi defunti e che vedrò al museo, insieme alle corone reali, folti serti di foglie di quercia d’oro.
«Ne avevamo di tempo, per noi, per studiare», dice ricordando con gli occhi lucidi le giornate lente dell’epoca comunista, terminata nel 1990. A lui sembra l’età dell’oro, tanto più che con la pensione non campa e gli tocca arrabattarsi e accettare quel che trova.
Non lontano da lì, Trace era anche Plovdiv. Si chiamava Eumolpias, fino alla conquista dei vicini macedoni, di Filippo II, il padre di Alessandro Magno, che la ribattezzò Filippopoli (341 a.C.). Posta sul cammino verso l’Asia Minore, ne ha passate di mani, Plovdiv. Roma la ribattezzò Trimontium, poi i Visigoti, i Bizantini, gli Slavi… Infine i Bulgari, gente misteriosa di stirpe turca, venuta dalle steppe dell’Eurasia per affogare qui nella marea slava.
L’ultimo invasore fu ottomano e ci stette mezzo millennio, fino al XIX secolo. Per questo il centro storico di Plovdiv sfoggia un aspetto simile alle città d’Anatolia. Lo si nota nel disegno delle case antiche, nella città alta, con i veroni chiusi in legno variopinto sui vicoli. La mattina le donne di casa ramazzano, mentre qualche gruppetto di turisti esplora, che dentro alcune si fan visitare. Case da ricchi mercanti, a due piani, con un’anticamera al centro e gli altri vani intorno: le stanze dei padroni, degli ospiti, i salotti. Poi i parquet, i divani, l’argenteria di sapore ottocentesco, dell’epoca gloriosa della Rinascenza, quando i bulgari spezzarono le catene turche.
Plovdiv è la seconda città del paese dopo Sofia e centro culturale di rilievo. Non a caso quest’anno è Capitale europea della cultura, insieme a Matera. Lo gridano fior di manifesti dappertutto, con qualche eccesso d’enfasi: la «Firenze bulgara», la «Parigi dei Balcani»… Di certo è una città viva, sempre in movimento, e lo so bene io che in tre visite, in pochi decenni, l’ho vista trasformarsi.
La ricordo fumosa e fatiscente nel 1988: un attimo prima che le crollasse il mondo addosso, quello comunista, sembrava dovesse rimanere immutata, come una foto ingiallita, per altri mille secoli, con le strade rotte, le case scrostate, persino il teatro romano, sulla collina, in malora.
Poi bramosa di cambiamento ma smarrita nella transizione una decina d’anni dopo, nel momento di crisi nera, quando i nuovi democratici non sapevano che pesci pigliare, la gente stentava a campare e i branchi di cani, d’inverno, aggredivano i passanti per la fame. L’ambasciatore italiano, incontrato informalmente in un locale, caldeggiò la mia rapida ripartenza, che chissà cos’avrebbe potuto succedermi in questo paese sbandato «dove la criminalità impazza», disse.
Infine oggi, nell’ora del rilancio vero. La città bassa, il centro del passeggio commerciale, è viva e vitale, con il vialone pedonale pieno di negozi chic, qualcuno persino global, e di locali dove sedersi per un caffè o un bicchierino di rakia, la bevanda nazionale, a guardare lo struscio. Tanti sono i visitatori ormai. Vengono a vedere anche il Monastero di Bačkovo (1083), poco fuori città. Lì sì, si sente l’anima slava. Basta assistere a una messa delle loro, che può durare ore, da consumarsi in piedi, quasi penitenti. Vi si respira l’eco di canti della chiesa orientale, quella che ha insegnato i rituali a tutte le altre chiese parenti, dai Balcani alla Russia.
Proprio dal Primo impero bulgaro (VII sec.) s’è diffuso il sapere slavo, scritto in lingua slava, con un alfabeto slavo, quel glagolitico messo a punto da due monaci greci, Metodio e Cirillo, da cui poi assunse il nome di cirillico. È un’esperienza d’incensi e di candele, di affreschi a scaldare i gelidi inverni di pietra, di sante icone dallo sguardo imperscrutabile, pronte per i baci dei fedeli. E sopra tutto, a guardar giù con le due dita alzate, campeggia il Cristo Pantocratore, ormai libero d’essere chi deve, dopo secoli di Islam e decenni di ateismo di Stato.
Tra i fedeli raccolti nel Monastero di Bačkovo c’è anche Dragomir, un bravo cristo che viene fin qui ogni domenica. Alla fine mi ritrovo a cena a casa sua, con sua moglie e la sua bambina, in un appartamentino con aroma di cipolle al quarto piano d’un caseggiato grigio di periferia, uguale a tutti gli altri da qui a Vladivostok. Dragomir fa l’autista e ripone grandi speranze nel turismo e nell’Europa. La moglie insegna inglese e lavorando entrambi, nonostante la crisi costante, sdegnando con fermezza le lusinghe del consumismo, riescono a risparmiare per lasciare questo buco di crepe e tappezzeria che cola e comprare una casetta fuoriporta. M’imbandiscono uno stufato alla bulgara, cibo forte, virile, mi dice lui azzannando gran tocchi di carne, e bevi, bevi quest’altro goccetto di rakia, e che sarà mai? Non è mai morto nessuno…
Così la mia serata finisce allegra, e allegro finisce anche questo mio viaggio, con negli occhi i volti speranzosi di questi cuori di confine.