La senatrice e professoressa Elizabeth Warren si candida per la nomination democratica alla Casa Bianca: una donna apre così la campagna presidenziale che durerà 20 mesi. Forse con quattro anni di ritardo, visto che la Warren ci pensò a lungo già nel 2015 e poi non osò mettersi di traverso a Hillary Clinton. Non è la primissima in assoluto, la senatrice del Massachusetts; ma è la capofila di quei big su cui il toto-candidature è già scatenato. Il primo gennaio 2019 lei lo ha usato per la sceneggiatura delle grandi occasioni: al suo fianco durante l’annuncio il marito, il golden retriever Bailey, sul cortile della sua casa nella cittadina universitaria di Cambridge, affollato dalle telecamere e dai reporter.
A 69 anni, è la più nota delle potenziali avversarie di Donald Trump dopo Joe Biden e Bernie Sanders (sempre che non ci ripensi Hillary). La senatrice si è gettata nella mischia con i toni radicali che le hanno conquistato ampi consensi nella base: «Washington lavora per chi ha denaro e si compra il potere politico, io combatto contro questo sistema. Basta con le campagne elettorali finanziate dai miliardari». La campagna più lunga del mondo si muove lungo un percorso in parte noto, in parte nuovo. C’è la barriera della raccolta fondi, che per chi non vuole i miliardari richiede un’organizzazione capillare capace di moltiplicare le micro-donazioni dei cittadini. C’è il pellegrinaggio anticipato negli Stati dove si svolgeranno i primi caucus e primarie del febbraio 2020 (Iowa e New Hampshire). C’è la raccolta degli endorsement tra i notabili del partito e le celebrity. Per arrivare infine ai dibattiti tv.
Ma il ciclone Trump ha sconvolto molte regole tradizionali. Lui raccolse pochi fondi rispetto a Hillary; compensò il deficit con la sua celebrità televisiva. Portò agli estremi il culto dell’outsider. I democratici devono tenerne conto. La stessa Warren ne è consapevole visto che i suoi scontri a distanza con Trump già le hanno dato un assaggio. Il presidente l’accusò di aver sfruttato una minuscola ascendenza da antenati indiani per avere una corsia preferenziale di accesso a Harvard, da allora la chiama «Pocahontas». Lei sottoponendosi a un esame del Dna si è attirata i fulmini della sinistra radicale e politically correct che l’accusa di avallare le teorie sulla genetica razziale. Proprio a sinistra lei ha il maggior seguito, i suoi trascorsi si collocano agli albori di Occupy Wall Street, quando fu una paladina di regole severe contro la speculazione bancaria. La Warren per i suoi messaggi sui temi sociali ed economici è una erede di Bernie Sanders (non l’unica).
In America il radicalismo su temi come le diseguaglianze viene definito – causa i precedenti storici che risalgono all’Ottocento – «populismo di sinistra». Al tempo stesso lei è «antropologicamente» un’intellettuale della East Coast, come ex docente di Harvard. Saprebbe riconquistare i cinque Stati del Midwest dove la classe operaia che aveva votato Obama poi si spostò su Trump? Con una presa di distanza inusuale il giornale progressista della sua città, «The Boston Globe», l’ha definita «una personalità che divide il Paese», sconsigliandole di candidarsi. I primi sondaggi su di lei confermano che può avere un forte seguito alle primarie democratiche, ma è fortemente avversata dai repubblicani.
Tra le candidature pressoché certe, dopo la sua, si attendono altre senatrici: Kamala Harris della California, Kirsten Gillibrand di New York, ambedue vicine all’ala sinistra del partito. Ci sono afroamericani come Cory Booker del New Jersey. Un possibile miliardario, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Meno affollato, almeno per adesso, il campo dei potenziali candidati del Midwest capaci di recuperare voti nella classe operaia su posizioni moderate: se si esclude la candidatura Biden restano Sherrod Brown (Ohio) e Amy Klobuchar (Minnesota). Un problema che li interpella tutti quanti, è «come gestire Trump»: fare una campagna di costante attacco al presidente in carica per trasformare l’elezione in un referendum sulla sua persona e mobilitare i tanti oppositori che spesso disertano le urne (giovani, minoranze etniche)?
Oppure impostare una campagna in positivo, accettando perfino alcune convergenze con Trump su temi come il protezionismo contro la Cina? Tutto ciò non avverrà in un vuoto politico. Questi venti mesi saranno movimentati dal rapporto fra il presidente e la maggioranza democratica alla Camera. E si può scommettere che lui farà di tutto per essere il vero protagonista della campagna elettorale anche in campo democratico. La sua capacità di calamitare l’attenzione dei media, di dettare l’agenda delle notizie, è una delle sue forze.
Per questo l’altra donna protagonista del momento è senza dubbio Nancy Pelosi, di nuovo Speaker of the House, cioè presidente della Camera dei deputati a maggioranza democratica. Una Camera che subito mette in cantiere disegni di legge puntati contro Trump: pubblicazione obbligatoria di dieci anni di dichiarazioni dei redditi (lui le nasconde); uno scudo normativo per proteggere il super-procuratore Robert Mueller che indaga sul Russiagate; riforme sul codice etico e i finanziamenti delle campagne elettorali. C’è perfino un deputato democratico della California, Bred Sherman, che ha già il disegno di legge per avviare la procedura d’impeachment. Poi bisogna fare i conti col Senato, rimasto in mano ai repubblicani.
Molto dipenderà dalla Pelosi, sulla tattica per contrastare Trump da qui all’elezione del 2020. Grande navigatrice della politica americana, a 78 anni l’italo-californiana Nancy ha smentito chi la dava sul viale del tramonto. Ha guidato le sue truppe in una riscossa elettorale che ha portato 40 seggi in più. Ha visto emergere una classe politica più giovane, più femminile, più variegata etnicamente: all’insediamento della nuova Camera c’erano 127 donne (contro 23 quando Nancy debuttò oltre 30 anni fa) e 56 neri. «La nostra democrazia – ha dichiarato la Pelosi nel discorso inaugurale – sarà rinnovata da questa leva di esordienti. Insieme riscatteremo le promesse del Sogno Americano».
Grande ritorno: prima donna nella storia a ricoprire questa presidenza della Camera, che è la terza carica istituzionale negli Stati Uniti; riconquista il ruolo che ebbe sotto George Bush (dal gennaio 2007) e sotto Barack Obama (fino al gennaio 2011), dopo avere speso sette anni all’opposizione come capogruppo della minoranza democratica. È navigatrice di lungo corso, senza di lei Obama non sarebbe riuscito a far passare la riforma sanitaria. Negli ultimi mesi la Pelosi si è dovuta difendere da una fronda interna, l’ala sinistra del suo partito ha tentato di impedire il suo ritorno alla guida della Camera. Ora l’aspettano sfide notevoli, come la «trappola» che già le indica l’editoriale del «Wall Street Journal»: «L’obiettivo dei democratici sarà investigare, non legiferare».
Prima emergenza da affrontare, lo shutdown: Trump continua a rifiutarsi di firmare la legge di bilancio, e quindi lascia a casa senza stipendio 800’000 dipendenti federali, finché non gli danno i soldi per il Muro. I democratici inaugurano la loro nuova maggioranza alla Camera offrendo un compromesso per cessare lo shutdown, la loro proposta di bilancio prevede 1,3 miliardi di stanziamento per rafforzare le «recinzioni» già esistenti lungo la frontiera, ma non il Muro per il quale il presidente vuole 5,7 miliardi. È un assaggio del delicato equilibrio che la sinistra tenterà di mantenere sul tema dell’immigrazione anche in vista del voto presidenziale: non cedere alla propaganda di Trump, ma neppure presentarsi come il partito delle «frontiere aperte a chi vuole entrare».
Un ruolo di comparsa all’insediamento del nuovo Congresso (ma nell’altro ramo, il Senato) l’ha avuto Mitt Romney, ex candidato presidenziale repubblicano battuto da Obama nel 2012, ex candidato alla segreteria di Stato scartato e umiliato da Trump. Eccolo al suo debutto in un mestiere per lui nuovo: senatore. Eletto nello Utah, roccaforte dei mormoni come lui, Romney fa sapere che non sarà tenero col presidente. Con una scelta che è già di per sé provocatoria, Romney scrive sul «Washington Post», giornale d’opposizione il cui editore è Jeff Bezos, padrone di Amazon e nemico giurato di Trump. Questo presidente, secondo il neo-senatore che appartiene allo stesso partito, «non si è elevato all’altezza della sua carica». L’editoriale sul «Washington Post» è una bocciatura implacabile: «Con una nazione così divisa, arrabbiata e rancorosa, è indispensabile una leadership presidenziale anche nella qualità del carattere. In quest’area i difetti dell’attuale presidente sono particolarmente evidenti. Per recuperare un ruolo-guida nella politica mondiale, dobbiamo riparare i guasti della nostra politica nazionale. È responsabilità del presidente, ispirarci e unirci».
La scelta delle parole, dei toni e dei tempi, ha scatenato ogni sorta di congetture. C’è chi immagina addirittura che Romney voglia sfidare Trump candidandosi per la nomination repubblicana in vista del 2020, cosa rarissima (in genere il partito del presidente uscente dà per scontata la sua candidatura, senza rivali né vere primarie contese). Può darsi invece che Romney aspiri semplicemente a occupare il posto che fu del senatore John McCain recentemente scomparso, una sorta di capo dell’opposizione interna, guardiano dei valori del vecchio partito repubblicano, anziano statista che vuole interpretare la coscienza della destra moderata, liberale.