È come se Theresa May avesse messo il paese davanti a uno specchio e gli avesse detto: ecco, ho dato forma ai vostri desideri, vi piace il risultato? La risposta è stata un «no» deciso, il verdetto più drastico mai pronunciato da un parlamento nei confronti di un governo britannico. Non la ama nessuno, la Brexit «Frankenstein», assemblata in due anni e mezzo di faticose trattative con Bruxelles seguendo le linee rosse indicate dalla May nella prima, aggressiva fase della sua premiership. Male si addice alle mode dottrinarie del momento, questo punto di equilibrio tra le esigenze di rottura dei Brexiteers intransigenti e il bisogno di trovare una soluzione al nodo delle due Irlande.
Unico punto d’equilibrio possibile, peraltro, se si vogliono al contempo tagliare la libera circolazione delle persone e impedire un confine fisico sull’isola celtica, il tutto tenendo conto dell’opinione dell’Unione europea, cosa che raramente i politici britannici hanno in mente. Troppo poco pura per i puristi, non piace neppure ai Remainers perché è comunque una Brexit e, come detto e ripetuto dal governo e da ogni centro studi del Regno Unito, in quanto tale danneggerà senz’altro l’economia nel medio termine.
In circostanze normali, una premier avrebbe fatto un bell’inchino e se ne sarebbe tornata a fare interventi con cachet strabilianti in giro per il mondo come tutti i suoi predecessori. E invece non solo la May non se n’è andata, promettendo di portare a termine il suo mandato di realizzare la Brexit e riecheggiando le parole con cui la regina Elisabetta II ha dichiarato di considerare il suo dovere regnare fino alla sua morte, ma ha anche inaugurato un cambio di strategia, cosa che in circostanze normali sarebbe già avvenuta da anni: un dialogo bi-partisan per arrivare a una piattaforma sulla Brexit che possa passare attraverso le forche caudine di un voto parlamentare
Il tutto dopo essere sopravvissuta a un voto di sfiducia chiamato dal leader dell’opposizione Jeremy Corbyn, che non ha una strategia discernibile sulla Brexit ma che pensa che attraverso le elezioni anticipate non solo lui arriverà a Downing Street, ma la questione Brexit si risolverà da sola, sebbene anche all’interno del suo partito ci siano spaccature profonde, con 71 deputati a favore di un secondo referendum, ipotesi alla quale lui sta opponendo una resistenza fortissima da anni.
Tornare alle urne, però, rischia di acuire la situazione, invece di risolverla, secondo quanto spiega ad «Azione» John Curtice, professore di politica all’Università di Strathclyde e massima autorità nazionale in materia di comportamento elettorale. Gentile e pacato, è lui l’uomo a cui tutti si rivolgono quando c’è da capire cosa pensano i britannici, anche quando la nebbia è fitta come in questi giorni di confusione massima. «Chiariamo una cosa: l’idea di un secondo referendum non è popolare, non piace alla gente. Stanno facendo una campagna brillante, ma la verità è che non ci sono le condizioni, l’opinione pubblica non è d’accordo, soprattutto quando si tratta di avere l’opzione di annullare la Brexit sulla scheda elettorale.
E per quanto riguarda le elezioni, tra i partiti c’è un testa a testa, il rischio è che si finisca con un hung parliament, un parlamento senza maggioranza». Per uscire dal pantano «ci vogliono piccoli passi e realismo, oltre al tempo necessario per individuare i cambiamenti che permettano alla May di far approvare il suo accordo». Ossia un’estensione dei termini dell’articolo 50.
Quello che in questa fase storica sembra perso è il «giusto mezzo», quel centro in cui è possibile trovare soluzioni condivise. Tutti lo cercano, nessuno lo trova. «Sono tutti agli estremi, lo scenario è polarizzato, e le opinioni sono diventate più radicali, anche se i numeri non sono cambiati», prosegue Curtice, secondo cui la May ha margine di manovra nel cercare una maggioranza intorno all’idea di un’unione doganale, che però impedisce di stringere accordi commerciali indipendenti e per questo non piace agli estremisti Brexiteers.
Come sa bene David Cameron, che in questi giorni è apparso abbronzato e ringiovanito per difendere la sua decisione di indire il referendum del 23 giugno del 2016, «i Tories erano sull’orlo della spaccatura e lo sono ancora», spiega il politologo, aggiungendo che «la May sa che deve muoversi con cautela o rischia che il partito si rompa. È una possibilità concreta. L’opzione Norvegia potrebbe piacere a una maggioranza, ma comporta rischi politici altissimi per i conservatori». Questi ultimi non possono provare a detronizzarla fino alla fine dell’anno, dopo il tentativo fallito del dicembre scorso, ma possono votare insieme al Labour, che ha promesso che andrà avanti con i voti di sfiducia nonostante il flop di questa settimana. «Al prossimo voto di fiducia non è detto che tutti i Tories votino per la May se lei cede sull’unione doganale», avverte Curtice.
I Brexiteers, che dopo la bocciatura dell’accordo raggiunto dalla May con Bruxelles sono andati tutti a casa del leader dell’influente gruppo ERG, Jacob Rees-Mogg, finanziere vittoriano nello stile e nelle opinioni, a bere champagne, avevano la possibilità di realizzare la Brexit tra poco più di due mesi in modo netto, sicuro, con l’unico inconveniente di dover mantenere qualche canale aperto con Bruxelles per non far saltare in aria l’equilibrio delicatissimo dell’Irlanda. Hanno detto di no, sperando in un no deal che dal 2016 a oggi si è trasformato da extrema ratio terrificante da evitare a ogni costo a soluzione desiderabile per purezza e dolorosità, come una sorta di esercizio spirituale per veri samurai-Brexiteers.
Contro il no deal, al momento, esiste l’unica maggioranza in un Parlamento che non sa cosa vuole ma sa sicuramente cosa non vuole. La May ne è consapevole e quando mercoledì sera dopo il voto di fiducia è apparsa davanti alla porta nera scintillante di Downing Street con l’aria di una che ha ancora voglia di lottare – il Paese si chiede sgomento come sia possibile, dopo tutto lo stress, le sconfitte, gli attacchi, e un commentatore l’ha definita «indistruttibile» come «un Nokia 5210» – ha fatto presente di essere decisa a dare la priorità all’interesse nazionale, ossia alla necessità di portare a termine un risultato che rispetti la richiesta degli elettori di uscire dalla Ue senza danneggiare l’unità del Paese.
Sono iniziati i negoziati a West-minster, i tentativi di larghe intese per arrivare a un accordo accettabile da presentare già lunedì. La May, figura tutt’altro che conciliante, sta mandando avanti i suoi, ma deve scontrarsi con la chiusura di Corbyn, che vuole che l’ipotesi di un no deal venga scartata in via preliminare per poter portare avanti qualunque discussione. Non è l’unico a pensarlo nel suo partito, e se il governo vuole realizzare una Brexit con le gambe forti e lunghe, deve considerare anche ipotesi fino ad ora ritenute troppo morbide come quella del modello Norvegia, che non permetterebbe di interrompere la libera circolazione delle persone e metterebbe il Regno Unito nella posizione di essere assoggettata alle regole europee senza avere voce in capitolo.
Un passo indietro, certo, ma anche l’unico modo per uscire dalla Ue senza autolesionismi o ulteriori incertezze. Che l’elettorato sia in grado di accettarlo è tutt’altra cosa, tanto più che una parte dei conservatori sarebbero prontissimi ad aizzarlo, giocando con il fuoco. Però c’è un grande desiderio di voltare pagina e di tornare a parlare di politica, nella speranza di poter porgere al più presto al Paese uno specchio che gli rimandi un’immagine più positiva e lusinghiera di quella attuale.