Un rifugio, quasi per sempre

L’Arte povera nasce nel 1967 grazie a Germano Celant che riunisce alla Galleria la Bertesca di Genova una serie di artisti che utilizzano materiali di uso comune. L’anno seguente alla Galleria De’ Foscherari di Bologna lo stesso Celant spiega cosa intende per Arte povera. Scrive di evento mentale e comportamentistico, antropologico, con l’intenzione di «gettare alle ortiche ogni discorso univoco e coerente». Un’arte che «trova nell’anarchia linguistica e visuale» il suo massimo grado di libertà. Fra la pattuglia di artisti uniti dal critico troviamo Mario Merz (1925-2003).
Di origine svizzera, Merz vive a Torino. Milita come partigiano nelle file di Giustizia e Libertà e alle Carceri Nuove, dove viene rinchiuso per un anno, conosce Luciano Pistoi che in seguito come critico de «L’Unità» gli pubblica il primo disegno. Legge Marx, forse Bakunin, e nel suo secondo Igloo del 1968 scrive col neon la massima del generale vietcong Võ Nguyên Giáp, simbolo della lotta contro l’imperialismo: «Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza». Siamo nella Torino operaia che ribolle di contestazione e Merz cerca di abbandonare l’arte come metodo per fabbricare merci. Niente catena di montaggio, né aumento indiscriminato dei consumi ma la creazione di un nuovo mondo intellettuale che Angela Vettese definisce nel catalogo Arte povera 2011 «nuovo ascetismo».
Merz parte dalla pittura informale ed espressionista per arrivare all’uso di nuovi materiali e ritornare negli anni Ottanta alla pittura. È famoso soprattutto per due tipologie di interventi: la serie legata alle teorie di Fibonacci, elaborate nel Duecento dall’abate Leonardo da Pisa detto Fibonacci, per il quale una sequenza di ogni numero è generato dalla somma dei due precedenti (1,1,2,3,5,8,13,21…) e quella degli igloo che unisce la formula aritmetica dei numeri con la forma infinita della spirale. L’igloo è per lui una sorta di ventre ove tutto è dentro ma che può ugualmente uscire.
Nel 1985 Harald Szeemann presenta al Kunsthaus di Zurigo tutti gli igloo di Merz realizzati fino a quel momento. Crea così una città degli igloo che nel loro proliferare si estendono all’infinito. «Tutti questi igloo, scrive Szeemann, sono entrati in conversazione o sono diventati musica».
In questi mesi, fino al 24 febbraio, l’Hangar Bicocca di Milano presenta più di 30 igloo dei 140 creati dall’artista nei 5500 metri quadrati della navata e nel cubo partendo proprio dalla mostra organizzata da Szeemann e aggiungendovi altre strutture create posteriormente. L’esposizione è organizzata dal direttore artistico dell’Hangar Bicocca Vicente Todolí in collaborazione con la Fondazione Merz della quale Todolí è uno dei membri del comitato scientifico.
Si apre con La goccia d’acqua, il più grande Igloo mai realizzato, del 1987. Dieci metri di diametro, una struttura semisferica in metallo ricoperta di vetri con un tavolo triangolare di 26 metri che lo interseca dal quale sgorga dell’acqua. Poi le strutture si susseguono in maniera cronologica iniziando dal famoso Igloo di Giap del 1968 (in questo caso un’opera del 1970 realizzata per l’esposizione alla Gam di Torino) per terminare con il Doppio igloo di Porto del 1998 realizzato per la personale alla Fondação de Serralves di Porto del 1999. In cima un cervo impagliato domina la scena, mentre le fascine all’interno richiamano la natura.
In mezzo alcuni capolavori come Chiaro oscuro / oscuro chiaro del 1983 dove due igloo si intersecano fra loro: uno coperto da fascine e l’altro da argilla. Il dentro e il fuori, il leggero e il pesante; le contraddizioni dell’esistenza e dell’uomo. Ne La pianta della vite nella sfera occidentale del 1991 (qui riproposto in una nuova ricostruzione di quest’anno) Merz addossa alla struttura metallica delle fascine di vite. Accanto un imbuto simile a quelli utilizzati per il vino. Spostamenti della terra e della luna su un asse del 2003, realizzato in occasione della personale alla Pinacoteca do Estado de São Paulo in Brasile, presenta un doppio igloo in vetro assieme a un igloo in pietra.
Nel tempo la carica sovversiva dell’arte povera ha perso il suo significato che attraverso il rifiuto del prodotto finito voleva sottrarsi alla mercificazione dell’arte. Scrive infatti Angela Vettese che fu «costretta a fare propri i meccanismi di potere e denaro inventati dal neoespressionismo, occupando quasi militarmente il sistema di gallerie, opinion leader, collezionisti, alimentato proprio da quei prodotti vendibili che erano nati nel solco di una reazione a essa e alle poetiche delle neoavanguardie». Rimane quel Che fare? del 1968 scritto col neon all’interno di una pentola che ricorda i dubbi del giovane Lenin. Senza risposta.
Mario Merz inanella negli anni una serie impressionanti di esposizioni nei più prestigiosi musei di tutto il mondo continuando fino alla morte alla creazione dei suoi igloo fatti di argilla, rami, marmi, tavoli, foglie, ferro… Anche se dalla fine degli anni Settanta ritorna all’arte figurativa che in realtà non ha mai abbandonato.
Bella mostra, un po’ piatta e monotona nell’allestimento.
Prima di entrare nello spazio delle Navate si attraversa lo Shed con le opere di Leonor Antunes (fino al 13 gennaio) the last days in Galliate a cura di Roberta Tenconi. Qui la giovane artista (Lisbona, 1972) indaga sulle figure e i temi rimasti ai margini della storia dell’arte attraverso forme flessibili, elastiche e morbide. Suoi punti di riferimento sono personalità quali Anni Albers (1899-1994), Lina Bo Bardi (1914-1992) e Clara Porset (1895-1994) seguendo un percorso che tocca le questioni di genere e appunto la storia dimenticata.

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