Haiti, quale speranza?

Tristezza, che forse è anche amarezza. Questi i sentimenti, le emozioni che scorrono nella mente guardando Port au Prince dall’oblò dell’aereo appena decollato.
Il viaggio era iniziato tre settimane prima all’aeroporto di Parigi con l’entusiasmo di un gruppo di donne, alcune accompagnate dai figli. Rientravano sulla loro isola per una prima vacanza dopo anni di vita da emigranti. «Ma voi avete mai visto un bianco sorridere sulla strada a Parigi?». Chiede una, facendo ridere tutti passeggeri del busnavetta che ci sta portando verso l’aereo. Piccola, rotondetta, pelle scura, seno prominente stretto in una giacca jeans nera. In testa un vistoso foulard leopardato; dai lobi delle orecchie pendono grandi orecchini in falso oro. Corre verso la scaletta dell’aereo sventolando le due mani verso l’alto «Haiti arrivooo…!», grida ridendo. Incontenibile e soprattutto contagioso il suo entusiasmo.
Haiti, uno Stato di cui la cronaca si occupa regolarmente. Terremoti, tifoni, ma soprattutto governi corrotti. Attraversarla è piacevole alla vista. Morfologia ondulata. Lunghe spiagge, anche se in grandissima parte impraticabili. Laddove il disboscamento selvaggio non ha inaridito il suolo, ricca foresta tropicale, con palme e bananeti.
Poi però ci si scontra con la durezza del vivere quotidiano della gente. Case fatiscenti, in gran parte poco più che delle baracche. Gente dallo sguardo spento, a differenza di coloro che avevo conosciuto nella loro lontana terra di origine, l’Africa. Gente schiva al momento di incrociare lo straniero. Rari i saluti spontanei che tanto ci avevano affascinati sul continente nero, anche se un nostro bonjour non manca mai di risposta e talvolta anche di un timido sorriso.
Avevo avuto modo di visitare Haiti sette anni prima. Erano trascorsi pochi mesi dal terremoto che aveva mobilitato il mondo in una gara di solidarietà con pochi precedenti. Allora gli occhi miei e l’obiettivo del fotografo Alfonso Zirpoli, di cui avevamo riferito anche da queste pagine, si erano concentrati sui lavori di ricostruzione. Oggi invece ecco Haiti al di fuori dall’emergenza. Oltre un quarto della popolazione emigrata alla ricerca di lavoro. Totale assenza dello stato nei suoi servizi basilari, ma sempre attento a riscuotere tasse e balzelli che finiscono nelle tasche dei notabili, racconta Ernesto un ex funzionario dell’ONU che ha scelto comunque di continuare a vivere sull’isola anche dopo il pensionamento. «Qui c’è molto da fare» ci dice, «proprio per sopperire all’assenza dell’apparato statale, cercando di dare una prospettiva a chi non ha voluto o potuto andarsene». 
Port au Prince la capitale, salvo il quartiere residenziale di Petionville adagiato sulla collina che sovrasta il centro città, è perennemente zona a rischio furti e aggressioni. Strade costantemente intasate dal traffico per la totale mancanza di pianificazione viaria. La città non offre alcuna occasione di svago. Sparite negli anni le sette sale cinematografiche esistenti; parchi lasciati all’abbandono totale; nessuna offerta culturale, mi dice Mayena, una giovane che lavora per un’organizzazione per la promozione delle strutture civiche del paese.
Anche Jérémie, cittadina situata a otto ore di strada verso la punta occidentale dell’isola è lasciata al totale abbandono. Nelle case edificate negli anni della colonizzazione francese, che offrono dei lunghi e bellissimi tratti di portici, s’intravvedono ancora i variopinti colori originali, ma le mura sono oramai fatiscenti, tanto da chiedersi come possano ancora accogliere la gente. Tante le mani tese a chiedere la carità. In centro città un grande giardino pubblico, che può assurgere a vero simbolo della decadenza da un passato glorioso. Vialetti elegantemente tracciati e delimitati da muretti dipinti di rosso. Sul lato che porta verso il mare una statua che ricorda tre generazioni della famiglia Dumas, di cui il bisnonno del famoso Alexander, autore tra l’altro dei Tre moschettieri, è nato proprio in città. Attorno, nel giardino ormai ridotto a semplice area in terra battuta da cui spuntano rarissimi ciuffi d’erbetta, una serie di giochi per bambini, tutti fuori uso. Sull’altro lato, verso la grande chiesa cattolica, un’ampia inferriata ovale, in parte divelta, al cui centro è posta una larga colonna. Sulla cima si indovina ancora la forma di due grandi scarpe. «Una volta lì c’era la statua di uno dei liberatori della patria», racconta in uno stentato francese mischiato al creolo un anziano seduto su un muretto «ma poi il tifone Mathieu due anni fa se l’è portata via…» e sorride con rassegnazione mostrandoci i pochi denti rimasti in bocca. Vicino a lui, altri vecchi a godere l’ombra dell’unico albero rimasto. Fuori dal parco frotte di ragazzi in motocicletta che offrono per pochi spiccioli il servizio taxi, unica possibilità di guadagno. I lampioni del giardino sono alimentati da piccoli pannelli solari, ma mancano le lampadine. Vicino svetta ben visibile l’antenna per le comunicazioni con i cellulari. Una cittadina con un passato certamente glorioso, ma di cui oggi rimangono solo imbarazzanti ricordi.
Ingombrante la presenza religiosa, con oltre tremila sfumature diverse. La vita di tutto un popolo è impregnata o forse presa in ostaggio da tante chiese, predicatori, sette, credi diversi. Come da noi in passato e recentemente in molti paesi di fede musulmana l’assistenza sociale, scolastica e sanitaria, in assenza dello Stato, è appannaggio delle chiese. Ad Haiti, girando per le strade, ovunque scritte variopinte con lodi e ringraziamenti a dio, poco importa se sull’entrata di un negozio di ferramenta; sulla fiancata di un’auto che svolge il servizio taxi; su un camion carico di ferri vecchi o sui cassonetti in cui la gente corre per giocare alla lotteria o ad acquistare crediti per il cellulare. Camminando per le strade è un continuo imbattersi in chiese più o meno imponenti. 
La domenica, la sfilata di famiglie vestite a festa che in gruppo, Bibbia in mano, si recano nell’uno o nell’altro edificio sacro. Di Jérémie mi rimane il ricordo forte di una chiesa zeppa di gente che ascolta le veementi parole di un pastore di una delle tantissime correnti protestanti. Sono racchiusi tra tre mura, la facciata principale non esiste più. Sopra il tetto è un collage di tendoni di US Aid: uno degli effetti devastanti del recente tifone Mathyeu per il quale non sono ancora stati raccolti i soldi per porre rimedio. Spesso dai pulpiti, racconta Cadeau membro di una delle varie correnti della Chiesa metodista, i nostri pastori spiegano la situazione disastrosa in cui si trova il paese rifacendosi all’immagine biblica della traversata del deserto. «E allora alla gente si chiede di accettare con umiltà e rassegnazione la situazione attuale» aggiunge, «perché solo accettando di percorrere il deserto domani potremo arrivare nella terra promessa». Lo dice guardandoci diritti negli occhi, a sottolineare ancor più l’importante funzione che la sua chiesa, a suo parere, svolge nel cercare di sostenere la sua gente. Intanto però in sordina gran parte degli haitiani non hanno abbandonato i riti vudú. 
Al momento della partenza come sarebbe stato bello poter incontrare di nuovo la signora piccola, rotondetta, pelle scura, seno prominente stretto in una giacca jeans nera che correva verso la scaletta dell’aereo in partenza del volo per Port au Prince gridando a gran voce «Haiti arrivooo…». Come avrà rivisto la sua isola dopo anni di esilio? Purtroppo non era sul mio aereo per contagiarmi di nuovo con il suo entusiasmo.

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