Un piatto povero, tipicamente locale, riabilitato dalla gastronomia stellata, nell’era dell’alimentazione a chilometro zero: parte da qui la ricerca che Emilio Magni, brianzolo doc, ha dedicato alla «cassoela», cibo di casa sua. Che, però, l’ha portato lontano. Certo, la scelta del tema conferma lo stretto legame dell’autore con il luogo dov’è nato e cresciuto, ma quest’appartenenza non significa un limite. Diventa, invece, un’opportunità per ricavare da cose, apparentemente minime, correlazioni e divagazioni, persino scoperte imprevedibili. Come, appunto, avviene con la «cassoela», piatto lombardo, simbolo di una civiltà contadina conclusa, che, in queste pagine, rivive lungo un itinerario storico, culturale e cronachistico ad ampio raggio. A cominciare dall’origine della parola: meneghina, cioè milanese, che deriverebbe dal francese «casserole», o , invece dallo spagnolo «cazveula».
C’è pure chi avanza l’ipotesi tedesca «kassler», parente prossimo, potremmo aggiungere, della nostra «Bernerplatte», piatto a base di crauti e ovviamente, di maiale. Un toccasana per l’alimentazione delle famiglie contadine fino alla metà del secolo scorso, come racconta Magni, rievocando la centralità del maiale, protagonista non soltanto in cucina ma anche di eventi e riti che animavano momenti d’incontro, insomma forme di socialità spontanea.
Da bambino, affascinato dal lavoro di chi trasformava le carni suine in salami, cotechini, luganighe e «cudegot», sognava di fare il salumiere. Ma già allora, assistendo di straforo (i ragazzi non erano ammessi) alla cruenta mazza del «purcell», dimostrava quella curiosità per andare oltre che avrebbe poi contrassegnato la sua futura carriera di giornalista. Anche in queste pagine la fedeltà alla memoria locale e il bisogno di sfuggirvi si affiancano.
Da un lato, il cronista di Erba, che registra una quotidianità vissuta in prima persona e, dall’altro, il reporter che esplora i grandi orizzonti esotici. A modo suo, però. Ecco che, persino in Perù, a quota 3500, fra i picchi della Cordillera Blanca, con un gruppo di alpinisti italiani, vedendo un maialino e, in un orto, le verze, riesce a far cucinare un’insperata «cassoeula peruviana». L’esperienza si ripete nel Kahmir, paese musulmano dove «il maiale è considerato alla stregua del diavolo». Invece, in un ristorante, che godeva di una speciale licenza, eredità dell’epoca coloniale britannica, «mi è capitata una gaudente “pacciata” di maiale», cucinato con spezie e accompagnato da tè bollente.
Al di là di queste soste gastronomiche, un po’ goliardiche, il nostro autore punta verso ben altri obiettivi. Si tratta, in definitiva, di ritrovare, nel corso della storia e della cultura, le tracce che giustificano il riscatto di un animale tanto utile quanto mortificato. A cominciare dal nome, sinonimo di volgarità e sporcizia. In proposito cita lo scrittore Camilo José Cela, Nobel l989: «Ogni volta che scrive maiale, tra parentesi, aggiunge ( con licenza)». Come a scusarsi con il lettore. Per non parlare, poi, della femmina del maiale: qui, osserva Magni «Le cose precipitano: i sinonimi porcella e troia diventano veri e propri insulti». Proprio la scrofa può essere considerata un simbolo di Milano, antecedente il biscione dei Visconti. È infatti raffigurata in un bassorilievo del Palazzo della Ragione, in via Mercanti e compare su uno stemma, a Palazzo Marino, come riferisce Magni proseguendo in un’operazione riabilitativa, dove non è solo.
Recentemente, il «Corriere della Sera» ospitava un intervento dello storico Roberto Finzi, già autore del saggio L’onesto porco, storia di una diffamazione; ora, sulla scorta di un documento del Seicento, il maiale serve a dissipare «Il pregiudizio contro gli ebrei». In quanto forniva ai «dilettissimi ebrei» le setole «destinate a “rappezzare le scarpe e far l’arte del calzolaio”».
Muovendosi abilmente attraverso epoche e universi lontani, l’autore ritrova il filo conduttore che lo riporta vicino a noi, in luoghi sempre segnati dalla presenza della «casseola» e dei suoi estimatori, fra cui compaiono personaggi illustri, spesso pittoreschi. Ecco la scrittrice milanese Ottorina Perna Bozzi, morta nel 2013 a 104 anni, autrice di ricettari della cucina lombarda e considerata «l’Artusi del popolo». E poi, ovviamente, Gianni Brera, «grande maestro del giornalismo e grande pacciatore», e, inatteso, l’alpinista Walter Bonatti che, a tavola, davanti al suo piatto preferito, usciva dalla riservatezza. Al novero, osa supporre Magni, potrebbe appartenere anche George Clooney, durante i suoi soggiorni sulle rive del Lario.
Certo è che questo piatto continua a fare notizia, protagonista di feste culinarie, anche in Ticino. La più importante si tiene, dal 2013 a Cantù, voluta dal sindaco Carlo Bizzozero, che considera la casseola «un piatto iscritto nel Dna collettivo dei brianzoli». Alla prossima edizione, parteciperanno 42 ristoranti e trattorie, impegnati nel rilancio di un piatto diventato «trendy» anche fra i giovani. Può persino sembrare una sfida nei confronti della nuova dietologia che, del resto, ha cercato di proporre la versione «light» di una pietanza, per definizione grassa, «bela vuncia». Per Magni, la cassoela magra è «un ossimoro», una contraddizione di termini, un tradimento.
Ma, in fin dei conti, a chi spetta l’invenzione di questo piatto, ormai adottato dalla gastronomia che conta? Qui dalla storia si passa alle leggende. La più simpatica racconta l’ascesa sociale di Giusepa, contadinella brianzola di bell’aspetto: da servetta diventa cuoca presso il governatore del ducato di Milano, allora, nel 1500, sotto dominio spagnolo: preparando una cassoela, piatto povero apprezzato dai gran signori. Ieri come oggi.
10
previous post