«Nelle lettere che inviava a Lucrezia Borgia, lui la chiamava “luce della mia vita”, “dolcissima vita mia” e le scriveva che “grande fiamma è quella d’un vero amore”. Lei gli rispondeva chiamandolo “Pietro mio” e imponendogli di usare un misterioso soprannome: “questo da qui avante serrà el mio nome: FF”».
Il quadro numero undici della terza stanza al primo piano di questo Museo della lingua italiana di Giuseppe Antonelli è dedicato a Pietro Bembo, che tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento fu cardinale, umanista e linguista, ma anche grande innamorato, un linguista innamorato si potrebbe dire. Bembo fu, sopra ogni cosa, lo stabilizzatore della norma linguistica, l’inventore dell’italiano letterario due secoli dopo Dante, Petrarca e Boccaccio; e decisamente un’istituzione, quindi, per la nostra lingua.
Il museo della lingua italiana è opera recente di Giuseppe Antonelli, che dei linguisti italiani è uno dei più prolifici, abile soprattutto nella divulgazione, nel virtuoso sapere indirizzarsi alla gente a proposito di cose di lingua. Il libro è particolare, perché progetta un concreto museo dedicato all’italiano, con piani, stanze, oggetti esposti e testi di accompagnamento, il tutto con taglio storico e ottimistico. Il modello è quello del Museo della lingua portoghese di San Paolo del Brasile; e il «sogno» di Antonelli si apre appunto sul suo rovinoso incendio del 2015. Poi, come detto, ha inizio il disegno dell’architettura interna dell’edificio, con la produzione degli oggetti e i testi che ce li giustificano.
Il museo è sbilanciato: la prima sezione-piano espone il periodo dal Medioevo al Settecento e porta i primi testi in italiano, quelli informati di un materiale che farà dire agli specialisti qualcosa tipo «ecco, questo, per motivi strutturali morfologici e sintassi non è più latino (anche se non è ancora del tutto italiano)»; la seconda copre due secoli, dalla metà del Settecento alla metà del Novecento e la terza è interamente dedicata all’italiano contemporaneo.
I pezzi sono opere d’arte e testi documentari, ma anche «oggetti d’uso comune». Dai ritratti dei padri dell’italiano, alla riproduzione dell’Indovinello veronese (testo primigenio, di quelli richiamati qui sopra), le pale dell’Accademia della Crusca, il simbolo dell’euro, il baule di un emigrante, una matita rossa e blu, un cartello direzionale che conferma l’itinerario verso Barbiana, la sua scuola e Lorenzo Milani. Ogni oggetto richiama un tema, e il percorso è dunque tematico ma soprattutto storico e cronologico.
Se questo museo si farà o si potrà fare, non sappiamo; certo è che l’eventuale «museabilità» di una storia linguistica parrebbe proporzionale al grado di percezione della lingua come istituzione o addirittura patrimonio nazionale; il poco rispetto di molti italiani, anche di quelli che contano perché lavorano nell’amministrazione pubblica o nelle università, parrebbe scoraggiante se messo di fronte ad altre realtà che hanno organi e accademie fieri, consapevoli e determinati. Vedremo; il libro è bello, e beneficia del fascino dell’elenco e del percorso.
Tra le conclusioni possibili, fuori dal testo di questo libro, e pensando ancora a Pietro Bembo, c’è il fatto (minore ma forte di qualche suo fascino) che i linguisti sono capaci di affetti anche sofferenti e fuori misura; per la propria lingua, per il sogno di costruirle attorno un museo, e nondimeno per le proprie femmine. Oltre alla duchessa di Ferrara, Bembo scrisse parole tenerissime a un’altra delle sue donne, la vedova Maria Savorgnan. «Pure benedette quelle parole, chè essendo elle ardenti, non è meraviglia se accrescono ardore. Amatemi» (come non si potrebbe, del resto, non rispondere con parole ardite a una che vi ha appena spedito un «Vostra, vostra e vostra e vostrissima son e serò sempre»?).
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