Gli animali. E noi

La sua immagine della bambina afgana dagli occhi verdi, che volge lo sguardo fermo e sicuro verso l’obiettivo è divenuta l’icona della fotografia di viaggio degli ultimi decenni: stiamo parlando di una fotografia e di una mostra di Steve McCurry (Philadelphia, 1950), ospite fino a metà di aprile (la mostra è appena stata prolungata) a Milano nelle sale del MUDEC, il nuovo museo delle culture della vicina metropoli lombarda.
Nelle sale si propone una selezione del fotografo americano che, come citato nel titolo, verte sul rapporto tra uomo e animale, considerato su una scala planetaria. Curata da Biba Giacchetti, l’esposizione comprende una sessantina di scatti scelti nell’attività trentennale dell’autore, primo episodio di un’antologia più vasta che è prevista per il prossimo anno.
L’operazione del fotografo americano è piuttosto chiara: trovare, all’interno del suo enorme archivio, alcuni temi che si prestino a un confronto interculturale. Come è capitato anche per il recente libro Leggere. Una passione senza confini, un fotolibro accompagnato da un testo di uno dei più noti scrittori di viaggio, Paul Theroux.
Esposto il tema, non possiamo fare a meno di notare come alcune immagini siano capaci di strappare un sorriso (un ragazzo che legge appoggiato a un piccolo elefante, un altro ragazzo indiano che mangia un ghiacciolo con al collo un roditore bianco), altre, a un’analisi più approfondita, nascondono invece una storia tragica dietro allo scatto: il simpatico cane Suchi portato su un portapacchi di una bici in realtà è diretto ad un combattimento di cani a Kabul; la carovana di cammelli che fugge da un inferno di fuoco e fumo racconta la ritirata delle truppe di Saddam Hussein dal Kuwait durante la prima guerra del Golfo (1991) – una fotografia apocalittica che gli valse l’anno successivo il premio del World Press Photo – e infine il cane rifugiatosi sulla soglia di casa è in realtà in pericolo di vita sotto i monsoni sempre più violenti e frequenti.
Per quanto riguarda il suo stile, ormai si può dire che ha fatto scuola ed è diventato «mainstream», conquistando anche un’ampia schiera di viaggiatori, professionisti o meno. Uno stile alla «National Geographic», laddove, appunto, spesso compaiono le sue immagini: quindi molti ritratti in primo e primissimo piano, con colori saturi e contrastati, a cui si aggiungono delle linee di contorno evidenti: oggi lavorate in digitale, un tempo effetti ottenuti con la pellicola diapositiva Ektachrome.
Non manca, nel McCurry di oggi, anche uno sprizzo di esotismo contemporaneo, ovvero quella proiezione – prettamente formale – di un’aspirazione tutta occidentale di bellezza, in particolar modo per quanto riguarda il suo amato sub-continente indiano. Nel fotografo americano, infatti, il tempo appare sospeso in un passato indefinito, mentre sono rare le tracce di modernità che investono questi paesi in pieno sviluppo.Assai lontano dagli esordi nelle zone del conflitto russo-afgano di fine anni Settanta-Ottanta oppure nella ex-Jugoslavia e altri luoghi, oggi McCurry è un fotografo di viaggio – e non più d’assalto – e al contempo quello che potremmo definire un fotografo-azienda: numerose gallerie gestiscono le sue immagini, i diritti di riproduzione e le sue esposizioni in certi periodi anche in contemporanea, come ad esempio quella che si è appena conclusa a Palazzo Madama a Torino.
La ragione di tutto ciò è presto detta: McCurry cerca di imporsi in un mondo dei media che è cambiato radicalmente negli ultimi decenni, reagisce a una penuria di commissioni che – diversamente dai suoi esordi – non permettono più di dedicarsi a lungo a un progetto.Va detto in oltre che negli ultimi anni l’autore è stato bersaglio di aspre critiche per quanto riguarda il suo ricorso al fotoritocco, visibile in più di un dettaglio delle sue immagini. Un intervento considerato come una contraddizione con la poetica della presa diretta della realtà. Preso atto di ciò, va tenuto conto che il fotografo – mettendo a fuoco una piccola porzione di mondo davanti ai suoi occhi – ha sempre offerto una visione individuale e in ogni caso parziale della realtà che ha di fronte a sé.
Per concludere, segnaliamo la volontà del museo milanese, proprio con questa mostra, di inaugurare un rapporto continuo e costante con la fotografia, con l’intenzione di proporre due mostre all’anno. In quanto questo medium, è ancora capace – nonostante tutto – di leggere con profitto la complessità del contemporaneo.

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