Vi ricordate il video dei migranti che a colpi di spranga hanno assaltato e distrutto un’automobile dei Carabinieri italiani, ferendo un maresciallo e facendola franca? E la storia dell’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che si era finta disabile per ottenere un posto migliore a bordo di un aereo di linea?
Se non vi viene in mente nessuno dei due episodi è perché le due cose non sono mai accadute: il primo video era una bufala tratta da un film di serie b e la seconda notizia era inventata di sana pianta. Eppure queste due fake news politiche sono circolate liberamente e a lungo su alcuni siti di propaganda a favore della Lega e dei Cinquestelle, i due partiti populisti oggi al governo a Roma, e sono state lette e condivise una decina di milioni di volte. La settimana scorsa, Facebook è stata costretta a chiudere 23 pagine italiane, alcune delle quali avevano pubblicato queste falsità e in gran parte concepite per disinformare scientemente a favore del blocco sovranista e populista.
Un paio di settimane prima dell’intervento in Italia, la piattaforma di Mark Zuckerberg ha chiuso sette pagine cospirazioniste americane di grande rilievo e i due casi, uno dietro l’altro, segnano una svolta concettuale da parte del colosso di Zuckerberg sul modo di gestire i contenuti che circolano sui suoi server. In seguito alle accuse di aver facilitato le attività di manipolazione orchestrate dagli agenti del caos, in particolare russi, Facebook ha iniziato progressivamente a cambiare atteggiamento: se fino a poco tempo rifiutava di considerarsi una media company e quindi di ritenersi responsabile dei contenuti che veicola, adesso mette in dubbio quella convinzione da sempre sostenuta senza tentennamenti.
Le inchieste americane, le denunce internazionali e gli avvertimenti dei governi e dei servizi occidentali sui tentativi di interferenza del Cremlino anche sulle elezioni europee di fine maggio hanno costretto i vertici di Facebook a cambiare registro, a fermare le pagine più palesemente dedite alla disinformazione e a esercitare finalmente un controllo sui contenuti come spetta a tutti gli editori tradizionali.
Per arrivare alla decisione di chiudere le 23 pagine italiane è stato necessario un report dettagliato dell’Organizzazione non governativa Avaaz, che si occupa di campagne ambientaliste e a favore dei diritti umani, ma anche la genuina volontà di limitare al minimo il rischio di manipolazione del consenso, e quindi di ulteriori imbarazzi, in occasione delle europee. Tra le pagine chiuse le più attive erano «Vogliamo il M5S al governo» e «Lega Salvini Premier Santa Teresa di Riva»: tutte insieme avevano circa due milioni e mezzo di follower, un numero superiore di mezzo milione a quello che si ottiene sommando i «mi piace» delle pagine ufficiali dei due partiti di governo.
Secondo il quotidiano «La Stampa», uno dei giornali internazionali più attenti all’influenza esercitata dalle fake news sui processi democratici occidentali, le 23 pagine chiuse da Facebook alla vigilia delle elezioni europee potrebbero essere soltanto una piccola parte di un più ampio sistema di disinformazione e di propaganda molto strutturato e capillare che arriverebbe a 104 pagine e a più di 18 milioni di follower.
Facebook sembra non essere più in grado di uscire dal vortice in cui è entrato e ormai non si contano più le imputazioni nei suoi confronti: l’elezione di Trump, la diffusione delle fake news, la manipolazione dell’opinione pubblica, la violazione della privacy, l’elusione delle tasse, gli scandali di Cambridge Analytica. Ma il colpo più imbarazzante per l’immagine di Zuckerberg è stato assestato, in questi ultimi giorni, da Chris Hughes, suo ex compagno di università ad Harvard e multimilionario cofondatore di Facebook.
In un articolo ospitato dal «New York Times», e da lì rimbalzato sui media di tutto il mondo, Hughes ha presentato un potente e convincente atto d’accusa contro Facebook, suggerendo che il social network che ha contribuito lui stesso a fondare, e grazie al quale è diventato multimilionario, è diventato così pericoloso da aver reso necessario e urgente un intervento legislativo per smantellarlo, per spezzettarlo, per costringerlo a vendere Whatsapp e Instagram, le altre due piattaforme controllate dal gruppo di Zuckerberg, per impedirgli di esercitare la sua posizione dominante sul mercato e sulla società e per fermare un monopolio senza precedenti, ormai diventato rischioso per la democrazia e letale per la concorrenza e l’innovazione.
L’appello di Hughes a intervenire con leggi antitrust e con agenzie di controllo indipendenti in grado di proteggere la privacy dei cittadini non è l’unico contributo politico e intellettuale che va in questa direzione: ci sono anche le proposte di legge della candidata alle presidenziali americane del 2020 Elizabeth Warren e molte altre iniziative che segnalano una nuova e matura consapevolezza diffusa sui rischi che i social procurano alla società. Facebook adesso non può più far finta di niente, è costretto a tenere conto delle critiche e a organizzare una difesa, anche perché la cosa che spaventa di più Zuckerberg è la reputazione pubblica della sua creatura, oggi non più smagliante come un tempo.