Dazi, si apre anche un fronte messicano

In assoluta controtendenza rispetto all’ascesa delle destre ai governi dei principali paesi latinoamericani e nel bel mezzo di un grande scontro politico con l’amministrazione Trump sulla questione migratoria, si rafforza in Messico il consenso al Movimiento Regeneración Nacional (Morena), il partito fondato dal presidente Andrés Manuel López Obrador, rappresentante storico della sinistra centroamericana.
Nelle elezioni svoltesi il 2 giugno in alcuni Stati messicani (il Messico è una Repubblica federale) il partito di Obrador ha avuto un grosso successo e ha sottratto i governi dei due importanti stati di Puebla e della Baja California al Partido Acción Nacional (Pan), partito di destra.
L’appuntamento elettorale era atteso come un banco di prova per la popolarità di López Obrador, da sei mesi alla presidenza del Paese con l’economia che non va a gonfie vele, la percezione generale di un aggravarsi inarrestabile della violenza e, soprattutto, la tensione per le minacce di ritorsioni statunitensi sul Messico considerato dalla Casa Bianca non sufficientemente collaborativo nel bloccare i migranti in transito diretti negli Stati Uniti. Nonostante, in realtà, stando ai numeri, il nuovo governo messicano non sembrerebbe poi così ospitale con gli immigrati: ha già fatto deportare 45mila persone senza permesso di residenza.
Obrador ha ottenuto il 53% dei voti nelle presidenziali dello scorso luglio. Con questi ultimi risultati amministrativi il suo partito, che già gode di un’ampia rappresentanza nel Congresso, conquista altri due Stati strategici dopo aver vinto, nel 2018, le elezioni nel distretto di Città del Messico e negli Stati di Morelos, Veracruz, Chiapas e Tabasco.
Grande eco nel Paese ha avuto la lettera con cui Obrador ha risposto, poco prima del voto, a Donald Trump che poche ore prima aveva annunciato l’introduzione di dazi progressivi sui prodotti messicani a partire dal 10 giugno come rappresaglia contro il Paese per non aver bloccato le carovane di persone che riescono ad entrare negli Stati Uniti nonostante il muro, il deserto ardente da attraversare e le battute di caccia dei pattugliamenti militari al confine. Dazi che, secondo quanto dichiarato da Trump, continueranno a salire progressivamente se Obrador non si mostrerà solerte con le richieste della Casa Bianca nel fermare i migranti in transito diretti al confine sud degli Stati Uniti. Una gran parte di loro è costituita da donne e da minori, spesso non accompagnati.
Il primo aumento di dazi sarà del 5%. Salirà poi al 10% a luglio, al 15% ad agosto, al 20% a settembre e al 25% a ottobre. Lo scorso febbraio Trump aveva dichiarato lo stato di emergenza nazionale che gli consente, tra l’altro, di fare ricorso a una legge del 1977, l’International Emergency Economic Power Act, per introdurre le tariffe su beni e servizi messicani. Quella norma legge permette al presidente di gestire direttamente il commercio durante un’emergenza nazionale.
«Sono mesi che andiamo avvertendo il governo messicano – aveva detto la portavoce dell’amministrazione Trump, Sarah Sanders – glielo abbiamo chiesto ripetutamente e gli abbiamo detto cosa devono fare. In media una persona che attraversa il confine impiega 21 giorni per arrivare negli Stati Uniti. Le autorità messicane hanno tre settimane di tempo per arrestare queste persone, in particolare i gruppi più numerosi».
Obrador ha risposto alla mossa di Trump con una lettera dai toni non morbidi, che si conclude però chiedendo dialogo e proponendo una mediazione possibile. Il tono battagliero del testo ha suscitato critiche, ma anche una ondata di orgoglio nazionale tra i messicani.
«Lo slogan America First è una menzogna» scrive Obrador. «Non credo nella legge del taglione, nell’occhio per occhio, dente per dente. Alla fine saremmo tutti sdentati e guerci». «Gli esseri umani non abbandonano i loro Paesi per piacere, ma per necessità. Per questo, dall’inizio del mio governo, le ho proposto di optare per la cooperazione allo sviluppo e di aiutare i Paesi centroamericani con riconversioni produttive al fine di creare impieghi e risolvere questa situazione indecente». Nel testo si legge ancora: «Presidente Trump, i problemi sociali non si risolvono imponendo dazi o misure coercitive. Come si può trasformare dalla sera alla mattina il Paese della fraternità con i migranti in un ghetto, in uno spazio chiuso dove si stigmatizza, si maltratta si perseguita, si espelle e si cancella il diritto alla giustizia a chi cerca con fatica di vivere libero dalla miseria?».
In coda, l’apertura e la richiesta di mediazione: «Le propongo di ricevere il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard per trovare un accordo a beneficio delle nostre due nazioni». Il ministro è andato a Washington, ma la contrattazione è ancora in alto mare.
Obrador sta attento nel non forzare la mano con Trump, non può permettersi di farlo per davvero. Ricorda bene quando, in piena campagna elettorale per la Casa Bianca, l’allora candidato repubblicano piombò in Messico con una raffica di dichiarazioni minacciose che terremotarono per settimane i rapporti diplomatici tra i due Paesi. Quella visita ebbe conseguenze complicate per il predecessore di Obrador, Enrique Peña Nieto, esponente della destra radicale annichilito dall’essersi trovato a dover trattare con un vicino apparentemente determinato a stravolgere le relazioni bilaterali tessute negli ultimi decenni.
Le parole di Trump in quell’occasione, il suo annuncio di voler deportare in massa gli immigrati messicani e di voler rendere assai sconveniente per le imprese americane delocalizzate in Messico continuare a produrre oltre confine, costarono molto a Peña Nieto che fu accusato di essersi mostrato assolutamente incapace di tutelare gli interessi economici nazionali.
La minaccia di imporre una tassa del 35% alle aziende americane che realizzano i loro prodotti sotto costo in Messico, per poi rivenderli negli Stati Uniti (il tweet presidenziale rivolto alla General Motors: «Sta mandando le Chevy Cruze costruite in Messico ai concessionari americani, senza tasse. Fatele negli Usa o pagherete grossi dazi!») e soprattutto l’annuncio della Ford di riportare la produzione negli Usa, sottrassero all’ex presidente l’appoggio di buona parte del mondo imprenditoriale che l’appoggiava. Soprattutto dopo che la Ford annullò un investimento di 1,6 miliardi di dollari previsto per lo stabilimento messicano di San Luis Potosì facendo sapere di voler destinare invece 700 milioni di dollari all’espansione della fabbrica di Flat Rock, in Michigan.
La partita politica, ora come allora, è ovviamente assai più complicata di come viene rappresentata dalle dichiarazioni belligeranti dell’una e dell’altra parte. Dall’inizio della guerra commerciale con la Cina, il Messico è diventato il primo partner commerciale degli Stati Uniti. Secondo i dati del Rappresentante per il Commercio americano, nel 2018 i due Paesi si sono scambiati beni e servizi per un valore di 600 miliardi di euro. L’annuncio del presidente americano ha avuto come effetto immediato quello di far crollare il peso messicano, che è arrivato a perdere fino al 2,3%.
Obrador, per continuare a rafforzare la sua leadership, sembra deciso a modulare le risposte alle minacce di Trump. Da una parte accarezza l’orgoglio nazionale rispondendo a tono alla Casa Bianca e promette ai migranti provenienti dai paesi centroamericani un permesso di lavoro nel caso decidano di rimanere in Messico. Dall’altra si acconcia, come può, ad accogliere alcune delle concrete richieste statunitensi: sigillare il confine a Sud con il Guatemala, passaggio obbligato per i profughi provenienti anche da El Salvador e Honduras, e gestire sul proprio territorio le richieste di asilo.

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