L’America in treno

Il Columbia River lungo la linea Empire Builder. (Elena Refraschini)Elena RefraschiniL’uomo in costume d’epoca, con tanto di cappello a cilindro, afferra il martello e – tac, tac, tac – dà tre colpi secchi sulla testa del chiodo dorato lungo il binario. Il telegrafo trasmette il messaggio: «Done! Abbiamo fissato l’ultimo chiodo: la ferrovia è completata».
Le due locomotive a vapore, una di fronte all’altra, lanciano il loro fischio acuto che si sparge in tutte le direzioni, riempiendo il desolato deserto dello Utah.Mi trovo a Promontory Summit, circa cento chilometri a nord di Salt Lake City, insieme a oltre trentamila americani, arrivati da tutto il Paese per assistere alle celebrazioni del 150° anniversario del completamento della prima ferrovia transcontinentale.
Tutto era iniziato solo sette anni prima, nel 1862, quando Lincoln firmò il Pacific Railroad Act. Cominciò così la gara tra le compagnie ferroviarie: la Central Pacific sarebbe partita dalla California in direzione est, la Union Pacific da Omaha (Nebraska) verso ovest.
Il punto d’incontro lo decise il fato, questo scenario apocalittico dove l’immenso cielo color indaco sovrasta l’arida spianata di terra rossa e rocce antiche. Proprio qui il 10 maggio 1869 fu piantato l’ultimo chiodo per collegare traversina e rotaia (Golden Spike), creando così la prima linea ferroviaria dall’Oceano Atlantico al Pacifico.Tutte le maggiori emittenti televisive sono qui, insieme a politici, storici e rappresentanti delle popolazioni indiane.
Per loro l’arrivo del cavallo di ferro cancellò le ultime speranze di ritagliarsi uno spazio nella nuova nazione, quando i bisonti furono sterminati per nutrire i lavoratori della ferrovia: è la storia del celebre William Cody, conosciuto come Buffalo Bill.«Se ci pensi è come lo sbarco sulla Luna dell’Ottocento!» mi dice Tim Redson; per essere qui oggi, dalla sua casa nell’Illinois, è stato in auto quasi ventitré ore. Non ci avevo pensato ma in effetti i due eventi sono avvenuti a cent’anni l’uno dall’altro e la stessa scossa di orgoglio patriottico ha smosso l’intera nazione, da New York a San Francisco.
Nelle pause tra un discorso ufficiale e l’altro chiacchiero con i miei «vicini di calca» (solo negli Stati Uniti una rievocazione storica è in grado di farti sentire come se fossi a un concerto di Bruce Springsteen). «La ferrovia ha cambiato profondamente l’America» mi racconta Matthew mentre si sistema il cappellino in testa (il sole a queste latitudini non perdona). «Ha aperto l’Ovest ai coloni, ha rivoluzionato le comunicazioni e stimolato il commercio. Prima coi carri un viaggio verso il Far West richiedeva quattro mesi di fatiche, privazioni e costanti pericoli; poi improvvisamente, una sola settimana!».
Il fervore di Matthew è però tutto rivolto al passato. Quando gli racconto che il giorno seguente partirò per un lungo viaggio a bordo dei treni Amtrak, tira fuori un sorriso imbarazzato e commenta: «Hai perso una scommessa?». L’americano medio quasi non sa nemmeno che i treni esistono ancora, nella sua Home of the brave. Leggo le domande nella sua testa: «È troppo povera per viaggiare in auto? In Italia non hanno gli aerei o non sa come si prendono?».È vero che i treni qui sono incredibilmente lenti – ci vogliono quattro giorni per andare da Seattle a New York – quindi a bordo trovate solo persone senza affari urgenti da sbrigare.
Ma proprio questo è il fascino di un viaggio ferroviario attraverso gli Stati Uniti: per riscoprire il valore del tempo, per pensare, leggere, scrivere, conversare, soprattutto per osservare con gli occhi incollati al finestrino il volto ancora selvaggio di questo Paese. Molto spesso, infatti, i treni tagliano paesaggi inaccessibili al viaggiatore in auto, al quale resta nascosta la parte forse più autentica d’America.
Nel frattempo, da quel lontano 1869, le tratte transcontinentali sono diventate quattro, a varie latitudini, tutte gestite dall’Amtrak, la compagnia ferroviaria nazionale. Per cominciare, California Zephyr collega Chicago con San Francisco in cinquantadue ore e attraversa i campi coltivati dell’Illinois tanto cari a David Foster Wallace, le grandi praterie dell’Iowa e del Nebraska, le spettacolari Montagne rocciose, il deserto, la Sierra Nevada e i laghi alpini della California sino alla baia di San Francisco.
I binari della prima transcontinentale sono usati oggi dai treni merci, ma alcuni tratti sono condivisi proprio con questa linea passeggeri. C’è poi la linea Empire Builder, la mia preferita, che corre per quarantasei ore da Seattle lungo il confine con il Canada attraversando le colline spazzate dal vento gelido del North Dakota e i picchi innevati del Montana. Invece Texas Eagle accarezza il corso del Mississippi prima di serpeggiare attraverso un interminabile Texas, per poi tagliare i deserti del New Mexico e dell’Arizona, in primavera un tappeto di cactus e fiori gialli.
Ho percorso queste tre linee già nel 2011. In occasione di questo anniversario ho voluto provare l’ultima che ancora non conoscevo, Southwest Chief, una volta il treno preferito dalla élite di Hollywood: affianca per buona parte del suo percorso la Route 66, passa le pianure infinite del Kansas, accarezza i pueblo del new Mexico e le città fantasma (ghost town) tra Arizona e California, fino a gettarsi nel dedalo delle superstrade di Los Angeles.
Attraversare gli Stati Uniti in treno è vivere in un continuo gioco di specchi tra percezione e immaginazione, tra paesaggio visivo e storie collettive, alla ricerca di questa sfuggente identità americana che si è formata proprio lungo i binari delle sue ferrovie. Tornando, come in ogni viaggio degno di questo nome, con lo zaino carico di domande più che di risposte.

Related posts

La forza ostinata dei sogni

Una città galleggiante

I colori del Ciad del sud