Non così d’acciaio

«Il poeta è un grande artiere / che al mestiere / fece i muscoli d’acciaio». Così Giosuè Carducci in una celebre lirica celebrava insieme l’incanto della poesia e la forza di quella lega di ferro e carbonio che nei suoi anni, fra Ottocento e Novecento, dominava ormai da tempo la scena industriale. Quello stesso materiale che nelle parole dell’architetto e urbanista Le Corbusier aveva un posto di assoluto rilievo nella struttura ideale delle nostre città: lo collocava accanto al sole, agli alberi, al cielo. Visioni che si elevano oltre la tecnica, richiamando la mitologia del fabbro presente in molte culture.
Nella classicità mediterranea l’immagine del fabbro creatore che domina gli elementi è quella di Efesto, Vulcano per i romani, il dio del fuoco che lavorava i metalli nelle viscere dell’Etna, il leggendario artefice dell’egida, lo scudo di Zeus, e dell’armatura di Achille. Chissà se Efesto conosceva la proporzione ideale di ferro e carbonio, quella che produce un metallo davvero inattaccabile. Chissà se sapeva che con il carbonio non si deve esagerare, che la sua presenza non deve essere di molto superiore al due per cento, altrimenti non di acciaio si tratta ma di ghisa, un fragile composto che del prodotto finale è per così dire la grezza crisalide.
Si parla dell’acciaio nella storia, nel mito e nella convulsa economia globale dei nostri giorni mentre attorno al più grande stabilimento siderurgico d’Europa, l’ex Ilva di Taranto, si sta svolgendo una vicenda fra il tragico e il surreale, che potrebbe portare a sviluppi traumatici per chi ci lavora, a una prospettiva da incubo, lo spegnimento degli altiforni. Un’operazione che ancora una volta richiama il mito, perché spegnere un altoforno è un’impresa che può durare mesi, ed è altrettanto impegnativa della procedura di accensione.
Per avere ragione di quel fuoco, che arde in una torre alta fino a ottanta metri e larga fino a dodici, bisogna mettere in campo tecniche e protocolli raffinati da decenni di costante perfezionamento. Nel caso specifico di Taranto l’eventuale spegnimento si realizzerebbe in un contesto davvero pesante, segnato dal dramma degli oltre diecimila dipendenti, senza considerare più che altrettanti lavoratori attivi nell’indotto, che proprio al bruciare perenne dell’altoforno hanno legato la loro vita.
Indebolito dai suoi dissapori interni, il governo di Roma cerca affannosamente di correre ai ripari, ma l’attuale gestore euro-indiano dello stabilimento, ArcelorMittal, sembra proprio intenzionato ad andarsene. Numero uno al mondo per la produzione di acciaio, questo colosso industriale si è arreso di fronte alla necessità di procedere in via prioritaria al risanamento dell’area e degli impianti. La grande fabbrica è appesantita da una quantità di lacune in materia di protezione dell’ambiente, con il risultato che le sue venefiche emissioni hanno collocato Taranto in vetta alle classifiche sull’incidenza di tumori.
In primo luogo il rischio di malattie degenerative riguarda gli stessi lavoratori, al punto che c’è chi chiede la chiusura dell’acciaieria proponendo una drammatica alternativa fra vita e lavoro. Di qui l’obbligo contrattuale per i nuovi gestori di attuare un rigoroso piano ambientale che permetta insieme di salvare la fabbrica e renderla compatibile con la salute di chi ci lavora e di chi abita nei pressi. È proprio la cornice giuridica di questo impegno al centro del contenzioso e difficilmente ArcelorMittal tornerà sui suoi passi, non a caso propone un drastico taglio degli organici che sembra fatto apposta per bloccare ogni possibile intesa.
Certo non sorprende che uno dei soggetti impegnati in questa partita provenga dall’Asia, sia pure con partecipazioni europee e con sede sociale in Lussemburgo. Nella graduatoria mondiale delle produzioni siderurgiche i primi tre paesi sono proprio asiatici: nell’ordine la Cina, che ha una posizione di schiacciante predominio, l’India e il Giappone. Soltanto al quarto posto gli Stati Uniti, che precedono la Corea del Sud. Seguono a distanza la Russia, la Germania, la Turchia, il Brasile, l’Italia. All’interno della guerra dei dazi fra Washington e Pechino scatenata dal presidente americano Donald Trump si sta svolgendo anche un serrato confronto sui livelli della produzione di acciaio.
È recente la richiesta che l’Unione Europea ha inoltrato alla Cina, invitandola a ridurre quella produzione per recuperare un minimo di equilibrio internazionale, ridimensionando il minaccioso surplus commerciale di Pechino. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che da qualche tempo il settore siderurgico versa in una crisi di sovrapproduzione, che a sua volta rende più arcigni gli egoismi nazionali.
L’acciaio e i suoi componenti, ferro e carbone, dominano da sempre, con il petrolio, la scena mondiale. La dominano anche da un punto di vista simbolico, grazie alla forza e alla versatilità di quel metallo. Non a caso la Germania nazista e l’Italia fascista chiamarono patto d’acciaio la sciagurata alleanza che portò ai disastri della Seconda guerra mondiale. Altrettanto simbolico, ma al tempo stesso estremamente pratico, il ruolo di questo materiale in un evento di capitale importanza nella storia d’Europa negli anni laboriosi del dopoguerra: il varo della CECA, la Comunità del carbone e dell’acciaio. Era il 1951 quando Francia e Germania, da sempre l’una contro l’altra armate, decisero di mettere una pietra sopra i conflitti del passato.
Lo fecero eliminando reciprocamente ogni dazio sulle risorse carbosiderurgiche, mettendole al servizio di un interesse che finalmente non era più soltanto nazionale. Proprio nei nevralgici territori di confine fra i due paesi, che furono la posta in gioco di tanti confronti armati, quelle risorse avevano le loro sorgenti minerarie, i vasti giacimenti di ferro e di carbone. Coinvolgendo anche l’Italia, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, la CECA fu il primo passo di quel processo d’integrazione continentale, gradualmente allargato ad altri paesi, che porterà prima al Mercato comune e ai trattati di Roma che fonderanno la Comunità europea, quindi all’Unione che oggi conta ventisette membri considerando l’imminente uscita del Regno Unito, diciannove dei quali usano la stessa moneta.
Quelli che videro la fondazione della CECA erano anni di grande ottimismo, di euforica proiezione verso il futuro. La più devastante guerra della storia era alle spalle, i nemici di ieri si stringevano la mano, l’alleanza atlantica garantiva la pace sia pure fondata sull’equilibrio nucleare, al fianco del rassicurante alleato americano. La vecchia Europa impegnata nella ricostruzione stava ritrovando se stessa incamminandosi fiduciosa verso l’avvenire. Sembrava che i problemi del passato fossero superati. Non era così, almeno non del tutto, perché il mondo era gravato non solo dalle insidie della Guerra fredda ma anche dalle disuguaglianze planetarie, inaccettabili e destabilizzanti, mentre era in agguato una nuova sfida, stavolta economica e finanziaria. 
Nella seconda metà del Novecento si profilava all’orizzonte la tumultuosa crescita dei paesi emergenti, a cominciare dai due giganti asiatici che oggi monopolizzano, o quasi, il settore siderurgico. Sfornando acciaio e molti altri prodotti più o meno essenziali con costi di gran lunga inferiori a quelli europei e americani, le potenze asiatiche si sono avviate verso una presenza sempre più ingombrante sui mercati di tutto il mondo, e presto includeranno nel confronto anche la competizione finanziaria.
 E così entrerà in crisi la globalizzazione, mentre gli Stati Uniti, elevando barriere doganali con la Cina e il resto del mondo, sfideranno quello stesso concetto liberistico che è stato considerato a lungo uno dei fondamenti ideologici della nostra èra. Questi primi decenni del terzo millennio vedono dunque una comunità internazionale irrequieta e squilibrata, e di questo squilibrio la produzione e il consumo di acciaio sono uno degli esempi più significativi. Il mondo dell’economia e del lavoro visibilmente zoppica, proprio come Efesto che la tradizione ci descrive deforme, sposo di Afrodite grazie a un raggiro e del resto da Afrodite disprezzato e tradito, al punto da indurlo a sprofondare nelle caverne dell’Etna. 
La figura contorta del fabbro divino circondato da mantici e martelli potrebbe simboleggiare proprio la siderurgia in crisi dei nostri giorni. Fra l’altro la sua febbrile attività sotterranea non era di quelle che creano lavoro, la leggenda ci racconta che i suoi collaboratori erano automi, lui stesso li aveva forgiati. Non sempre la mitologia è distaccata dalla realtà: Efesto non aveva forse anticipato il mondo dei robot?

Related posts

Uno spazio di libero pensiero in tempi bui

La fine dell’Europa americana

Perché Trump mira al Canale di Panama