«Lo Stato di Enugu è nelle mani di Dio »: per perentoria che sia, questa affermazione non proviene da un moderno predicatore, ma da un uomo politico. È lo slogan con cui la scorsa primavera Sua Eccellenza Lawrence Ifeanyi Ugwuanyi, noto a tutti come “Gburugburu", si è guadagnato la rielezione alla carica di governatore esecutivo dello Stato di Enugu, in Nigeria, dopo il primo mandato dal 2015 al 2019. Nel paese più popoloso d’Africa, la miscela tra messianismo e politica è la regola. La città di Enugu, il cui nome significa «città sulla collina», è la capitale dell’omonimo Stato, un tempo conosciuto come Biafra e teatro tra il 1967 e il 1970 di una sanguinosa guerra civile. Sui muri della città, il ritratto di Gburugburu – paffuto e gioviale – è corredato dalla sua professione di fede.
Il governatore, membro del Partito democratico popolare (PDP), deve il suo successo al suo carisma, alle sue battaglie economiche e sociali, ma anche e soprattutto alla sua fede cristiana, che condivide con la sua etnia, gli Igbos, in larga maggioranza cattolici. Con una popolazione del 18% su 203 milioni di nigeriani, gli Igbos costituiscono il terzo maggior gruppo etnico del paese, dietro gli Haoussas, di confessione islamica, e gli Yorubas, suddivisi in musulmani, cristiani e orishas (animisti).
Il reverendo Gerald Chukwudi Ani è nato nel 1973 nello stato di Enugu, un secolo dopo che i britannici hanno portato il cristianesimo in Nigeria. Oggi fa il prete a Grangia, alla periferia di Lugano. Da bambino assisteva il padre durante le cerimonie animiste nella foresta, durante le quali si immolavano animali agli dei.Suo padre si divideva fra tre mogli e una concubina. Ognuna aveva una capanna per sé e i propri figli: in totale, la famiglia allargata ne contava 21. Al centro delle capanne c’era la casa dell’uomo. Padre Gerald si sovviene della fame che durante l’infanzia tormentava lui e i suoi fratelli e sorelle.
A quattro anni, la mamma lo aveva inviato da un fratello maggiore: una bocca in meno da sfamare. Il fratello viveva nel nord musulmano; così il piccolo Gerald aveva dovuto imboccare la via dell’Islam, a cominciare dalla professione di fede: «Non c’è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta», da ripetere più volte durante la giornata, scandita dalle cinque preghiere quotidiane e dall’indottrinamento in moschea.
Nel 1979, in seguito a disordini etnici e religiosi – una situazione ricorrente in Nigeria – Gerald Chukwudi e suo fratello dovettero fuggire. Torna dunque nella sua città, da sua madre, dalla sua lingua, dalla sua cultura. Poi, nel 1984 attraversa un’esperienza quasi mistica. Una notte, davanti ai familiari, si mette a pronunciare frasi incomprensibili in una lingua sconosciuta: «Dominus Vobiscum. Et cum spiritu tuo».
La madre, non capendone il senso, va a trovare un sacerdote vudù che però si rifiuta di vedere il piccolo, perché secondo lui è posseduto da una divinità sconosciuta. Un vero trauma per Gerald. La rivelazione del messaggio divino penetra comunque nell’animo del ragazzino, che proseguirà il suo percorso scolastico e religioso, lavorando in parallelo per mantenersi. Nel 2019 questo percorso lo porta a diventare un prete della Diocesi di Lugano.
Per certi aspetti, l’itinerario personale di Gerald riflette quello della sua etnia, la cui conversione alla religione portata dagli europei ha contribuito ad alimentare il sentimento della propria identità. Quando, dopo l’indipendenza della Nigeria nel 1960, il paese fu diviso in tre regioni ad ampia autonomia, una di loro andò agli Igbos. Ma in questa terra instabile, una serie di colpi di stato portò presto a concentrare il potere nelle mani degli Haoussas e degli Yorubas.
Dopo numerosi tumulti con molte vittime, gli Igbos provarono a staccarsi dal regime federale e il 30 maggio 1967 dichiararono l’indipendenza della repubblica del Biafra. Prudentemente, i secessionisti si erano premuniti di non rimettere in discussione le concessioni accordate alle compagnie per lo sfruttamento del sottosuolo, particolarmente ricco di petrolio, ma la Nigeria impose un blocco e aprì le ostilità con il sostegno del Regno Unito, dell’Unione sovietica e degli Stati Uniti. Nel conflitto perse la vita oltre un milione di persone, vittime sia dei bombardamenti sia della fame. La guerra politica, religiosa ed etnica si concluse il 15 febbraio con la riannessione del Biafra alla Nigeria.
L’interpretazione del cristianesimo da parte degli Igbos si ispira al fideismo: la fede si basa sull’intuito e sul sentimento a scapito della ragione o di un approccio più filosofico. Dio, pertanto, è strettamente coinvolto nella vita quotidiana del popolo, come ad esempio nella scelta dei nomi. Ad esempio, «Chukwudi» significa «Dio l’altissimo esiste». E «Nkechi nyere tout », ossia «prendete ciò che il Signore vi dona», sarà il nome di una bambina nata in una famiglia che aspettava una discendenza maschile.
Gli Igbos sono anche adepti del teosofismo: grazie all’interpretazione del sacro e dell’umano, gli uomini possono associare il loro spirito a un corpo di luce per provare una seconda nascita. Basta ascoltare la radio e ben presto si può sentire una parola: Chineke (Dio), la cui onnipresenza nei testi delle canzoni popolari colpisce l’osservatore europeo, per il quale un uso del genere equivale a «mettere Dio in tutte le salse».
Le insegne e le vetrine dei negozi non sono da meno: una scuola elementare si è data il nome di «God Best School», traducibile in qualcosa come «La miglior scuola agli occhi di Dio». Il negozio «Divine Grace Interior Decorations» vende mobili. «Jesus is Lord» – Dio è il Signore – afferma una pubblicità dell’operatore di telefonia mobile MTM. L’insegna «God is good lodge» –Dio è un buon alloggio – propone camere singole in affitto. Un risciò vuole attirare la clientela con lo slogan «Jesus Motor» sulla capote. «What have you without Christ ?» – Cosa sei senza Cristo? – si chiede il cartellone di una stazione di servizio.
Lo scorso luglio Gerald Chukwudi è tornato ad Aqbani, la sua città natale nell’Enugu. Non è andato ad abitare nella casa di famiglia, perché non appena si sparge la voce che è lì una folla ininterrotta di visitatori arriva a sollecitare un sostegno finanziario. «Per soddisfare le richieste non basterebbero le riserve della banca centrale nigeriana», ripete di continuo.
Confrontato a una corruzione endemica, a una valuta instabile, alla mancanza di servizi istituzionali e sociali, a infrastrutture fatiscenti, a servizi sanitari pubblici degradati, a strade piene di buche, a interruzioni di corrente quotidiane, a un violento banditismo, a problemi etnici e religiosi, alla povertà… il cittadino nigeriano è obbligato a inventarsi quotidianamente degli espedienti per sopperire ai propri bisogni. Eppure le cerchie vicine al potere vivono in un’opulenza stridente.
I soldi di Gerald si limitano al suo salario mensile di sacerdote, che nella diocesi di Lugano è inferiore a quello di una commessa. A differenza dei preti europei «un prete africano, pur dedicandosi ai propri parrocchiani, resta un pilastro per la sua famiglia d’origine, con responsabilità finanziarie alle quali non può sottrarsi», sottolinea. Ogni mese, risparmia più che può per aiutare i suoi a pagare le spese mediche o gli imprevisti o le rette scolastiche dei parenti che frequentano le scuole primarie, secondarie o universitarie, come ad esempio questa giovane e questo giovane che hanno appena terminato gli studi in medicina, per i quali Gerald si è accollato tutte le spese. Un orgoglio e un esempio che spera di poter ripetere. L’educazione, infatti, resta lo strumento migliore per uscire dalla povertà e garantirsi un avvenire.
Rari sono coloro che possono contare su uno stipendio regolare e, anche quando c’è, è talmente basso che sono costretti a trovarsi un secondo o addirittura un terzo lavoro saltuario. Un paradosso in questo paese che è la prima economia del continente, con un PIL di 450 miliardi di dollari. La Nigeria dipende al 95% dal petrolio: se fosse ben governata, la nazione avrebbe le carte in regola per avere successo anche in agricoltura, nell’industria e in altri settori economici. Ogni anno, invece, centinaia di migliaia di laureati emigrano a causa della mancanza di opportunità.
Dio, allora, è anche una boa di salvataggio e uno sfogo per il popolo. Come sottolinea padre Gerald: «La gente pensa che sia sufficiente pregare e affidarsi completamente a Dio affinché quest’ultimo risolva tutti i loro problemi». Secondo lui, invece, «l’efficacia delle preghiere può dipendere solo dall’azione e dall’applicazione quotidiana delle regole religiose che si adottano per la propria esistenza personale». «Insomma, bisogna essere un uomo responsabile e onesto, un attore della società che sa che Dio è un sostegno morale, ma non colui che risolve i problemi concreti della vita quotidiana».