DJ set a Callao

Callao era già lì, prima ancora di avere un nome, quando nel 1535 la capitale del Perù fu fondata. Callao era il capolinea della rotta tra il ricchissimo vicereame spagnolo e la madrepatria. Qui approdavano i galeoni carichi di mercanzie provenienti da Siviglia per la via di Panama: viveri, abiti, utensili di ferro eccetera. Dopo aver svuotato le stive, le navi salpavano straripanti dell’argento di Potosí (ora in Bolivia) o colme dei tesori rubati all’impero Inca, sconfitto nel 1533 con l’esecuzione dell’ultimo suo sovrano Atahualpa.
Callao non ha mai perso importanza nel tempo. Era e rimane il primo porto sul Pacifico dell’America del sud, nonostante le tante traversie: una per tutte, il maremoto del 1746, che si portò via persino la sua cinta muraria costruita per scoraggiare i pirati, subito sostituita con la Fortezza del Real Felipe, la maggiore opera di architettura militare dell’America spagnola. 
Nel 1836, quando il Perù era ormai uno Stato indipendente, Callao fu elevata al rango di capoluogo di provincia e nel 2002 addirittura di regione, con un governo proprio, smarcato dalle ingerenze della capitale. Oggi, quasi per un naturale sviluppo dell’idea originaria, qui sorge anche l’Aeroporto internazionale di Lima Jorge Chávez. Con i suoi ottocentomila residenti, Callao contribuisce a formare una conurbazione di dieci milioni di abitanti, quasi un terzo del paese. 
Callao è un luogo di passaggio, non una meta turistica, perché è una delle zone più malfamate del Perù, con frequenti scontri armati e un tasso di omicidi doppio rispetto alla media del Paese. Qualcosa però sta cambiando da quando, nel 2015, è stato proclamato un lungo stato d’emergenza per i sempre più numerosi scontri tra bande. Da allora alcune associazioni provano a far cambiare l’atmosfera, attraverso la presenza sul territorio, inoculando vaccini di cultura e arte all’interno di questa realtà degradata, a cominciare dai pittoreschi quanto violenti quartieri del centro storico, come il Callao Monumental, a due passi dai moli del porto.
In Plaza de la Matriz, con la cattedrale ottocentesca, la gente si rilassa e legge il giornale. Mi siedo anch’io su una panchina, al sole fioco del mattino, e con una scusa attacco discorso col mio vicino. Luis Antonio viene qui quasi ogni giorno, da quando è in pensione. Legge con l’orecchio teso, dice che non si sa mai. Però è contento che ora ci sia sempre la polizia in giro. È lui a presentarmi Leyla, quando la vede sbucare tra le bancarelle lungo la adiacente via Galvez. 
Leyla avrà meno di trent’anni e lavora nella vicina Casa Fugaz, una galleria d’arte gestita da un’associazione. Il palazzo, fiammante di ristrutturazione, mi accoglie nel passage del pian terreno, col soffitto in vetro decorato e i negozietti di artisti e artigiani; poi lo sguardo corre su fino alla terrazza dove ogni domenica si organizza un concerto con vista su tutto il Callao, sul porto con le nuove gru e i mille container. In mezzo ci sono sei piani di saloni con esposizioni, foto, dipinti, laboratori di teatro, scultura, disegno. Un mondo a parte.
Leyla ci tiene a farmi fare un giro per le viuzze dei dintorni piene di buche, con numerose case in rovina tappezzate di graffiti. E quando le chiedo della sicurezza, mi fa conoscere Angel, «l’angelo custode», dice, un tipo sui cinquanta che, nato nel quartiere, ha l’esperienza e l’autorità per cavarsela. «Poi abbiamo dalla nostra doña Christina!» dicono quasi in coro i due intendendosi con uno sguardo, mentre in fondo alla via semideserta, tra le casette basse, una sagoma avanza a passo svelto. 
Doña Christina è una bomba. Mulatta, una settantina d’anni e un’energia da vendere, irrompe nel gruppetto e subito si presenta come una delle Madres del Callao, soggetto di una delle mostre di casa Fugaz; ragazze madri, mi spiega subito, perché qui sono le donne che tirano avanti la baracca. Gli uomini sono tutti in galera o al camposanto. Ne sa qualcosa lei, matriarca del clan più temuto del quartiere, Los malditos de Castilla: una dozzina di figli, una cinquantina di nipoti e ventisei pronipoti, in buona parte dietro le sbarre per omicidio, rapina aggravata, sequestro, non esita a dire con piglio sicuro. 
Vedova da decenni, è lei che ha tirato su tutta quella squadra. Non conosce esitazioni, doña Christina: «Se ho sbagliato qualcosa – dice – ebbene ho fatto quel che ho potuto. Qui è una guerra e sopravvive solo chi sta in piedi. Ma è ora di cambiare…» aggiunge con una risata rumorosa e complice verso i miei accompagnatori. Lei ora è dentro fino al collo nel progetto di Casa Fugaz e farà di tutto perché la cosa funzioni.
Non sarà facile. Ci vorrà la buona volontà di tutti gli Angel, le Leyla e i Luis Antonio per conciliare arte, cultura e DJ set con i derelitti e le sparatorie in strada. Ma il Callao ha affrontato e superato sfide ben peggiori.

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