Il sogno di Marta

Quando, nel 1976, Marta Becket e il marito Thomas Williams si trovavano nel campeggio di Furnace Creek, una gomma a terra sul loro rimorchio li costrinse a cercare un garage in mezzo al deserto della Death Valley. Lo trovarono a quasi 60 km di distanza in una piccola enclave lungo la strada, nel villaggio di Death Valley Junction, che comprendeva un fabbricato fatiscente composto dai locali ormai dismessi dell’azienda mineraria Pacific Coast Borax Company. 
Mentre Thomas riparava lo pneumatico nella vicina stazione di servizio, Marta si aggirava curiosando tra gli edifici. «Mi ero già dimenticata dello pneumatico», scrisse nella sua autobiografia To Dance on Sands: The Life and Art of Death Valley’s Marta Becket pubblicata nel 2006. «Ho camminato verso la struttura, temendo di toglierle gli occhi di dosso, per paura che scomparisse».
In una porta sul retro trovò una fessura da dove poté sbirciare all’interno. Lì vide un piccolo palcoscenico con tende di calicò sbiadito. Le travi del pavimento erano deformate e ricoperte da calcinacci, diverse file di panche ammassate di fronte al palcoscenico. Era ovvio che il teatro era stato abbandonato da tempo. «Osservando attraverso la fessura ho avuto la netta sensazione di guardare l’altra metà di me stessa. L’edificio sembrava dire: portami… fai qualcosa con me… ti offro la vita».
Martha Beckett (in arte Marta Becket) era nata nel Greenwich Village di Manhattan il 9 agosto 1924 da Henry Beckett, giornalista del «New York Post», ed Helen Brown, proprietaria di un negozio di mobili. I genitori si erano separati quando Martha era giovane, e la madre l’aveva portata a vivere in Pennsylvania prima di tornare a Manhattan. La giovane Martha, precocemente creativa, scrisse opere teatrali usando uno pseudonimo; inoltre suonava il pianoforte e ballava. La madre la spinse a portare avanti la carriera da ballerina a scapito degli studi superiori e ben presto Martha si unì al corpo di ballo del Radio City Music Hall. A Broadway si esibì nel musical Show Boat, in A Tree Grows in Brooklyn e Wonderful Town.
Nel decennio prima di ritrovarsi a Death Valley Junction, dunque, Martha conduceva una vita intensa e itinerante. Quello che da anni era il suo manager nel 1962 diventò suo marito, e insieme a lui intraprese una serie di viaggi negli Stati Uniti occidentali durante i quali iniziò ad apprezzarne il paesaggio, molto diverso da quello che aveva conosciuto crescendo a New York City. Fu proprio durante uno di questi viaggi che Martha si innamorò di quello che sarebbe diventato l’Amargosa Hotel and Opera House, così ribattezzato in onore dell’insediamento originale il cui nome si traduce in spagnolo come «amaro», a causa delle sorgenti alcaline circostanti.
Progettata dall’architetto Alexander Hamilton McCulloch e costruita durante gli anni 1923-1925, la struttura di proprietà della Pacific Coast Borax Company era una vera e propria città aziendale. Composta da un complesso a ferro di cavallo di edifici di adobe in stile coloniale spagnolo, ospitava gli uffici dell’azienda, negozi, un dormitorio, un hotel con ventitré stanze e una sala da pranzo, una lobby e la sede dei dipendenti. All’estremità nord-est del complesso era stata realizzata una sala ricreativa, la Corkhill Hall, utilizzata come centro comunitario per danze, funzioni religiose, proiezioni di film, funerali e riunioni cittadine. 
Stanchi della vita frenetica di New York, dove cercare di rimanere a galla finanziariamente ed emotivamente era un impegno gravoso, il pomeriggio stesso i due si assicurarono l’affitto del complesso per 45 dollari al mese più le riparazioni. L’opera di ristrutturazione dell’hotel e del teatro iniziò immediatamente: dopo che il tetto fu riparato e le luci di scena furono ricreate a partire da vecchie lattine di metallo, Martha cucì tende di velluto rosso e dipinse i set. Nemmeno gli spettacoli tardarono ad arrivare: la prima rappresentazione avvenne il 10 febbraio 1968 quando, in una notte di pioggia, l’artista si esibì per un pubblico di dodici adulti e i loro figli e nipoti. Da allora e per anni, il sipario dell’Amargosa Opera House si aprì alle 20.15 di ogni venerdì, sabato e lunedì. 
Il pubblico era composto da gente del posto e turisti curiosi, ma a volte la partecipazione era scarsa o addirittura nulla. Nel 1968, dopo un’improvvisa inondazione che lasciò trenta centimetri di fango all’interno del teatro, Martha ebbe un’idea: dipingere sulle pareti un pubblico che le tenesse compagnia quando non c’era nessuno ad assistere agli spettacoli. La donna scelse di raffigurare una corte spagnola del XVI secolo con un re e una regina, oltre a una serie di personaggi che si ispiravano allo stile coloniale spagnolo originario: nobili, toreri, uomini di chiesa, contadini, zingari e prostitute. 
La signora Becket si esibì per i successivi 40 anni, smettendo soltanto nel 2012 all’età di 88 anni. Nel frattempo, il matrimonio con Thomas era andato gradualmente a pezzi, e a metà degli anni Ottanta i due divorziarono.
La donna dipinse murales anche in tutto l’hotel. Un’alcova all’ingresso del corridoio principale raffigura un gazebo, naturalmente illuminato da un lucernario. Una chitarra poggia su una sedia, in silenziosa attesa di un chitarrista. Le pareti della sala da pranzo sono adornate da murales di un giardino spagnolo del XVI secolo. 
Le pareti di molte stanze sono decorate con dipinti di putti, pavoni e angeli. Nella stanza 22 una ballerina danza su una palla, mentre una raffigurazione di clown e acrobati è una dedica speciale all’attore Red Skelton, che fu ospite dell’hotel in quattro occasioni.
Quando Martha Becket morì nel 2017 il suo unico superstite fu il teatro; insieme a esso, sulle pareti e sul soffitto, il pubblico colorato da lei dipinto, che non se ne sarebbe mai andato.

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