Viaggiatori d’Occidente - Un percorso tra le icone più poetiche (ma anche commerciali) di un Messico che mantiene il suo fascino, decadente quanto suggestivo
Scena 1 – Nel patio della casa-tempio del boss risuona la struggente versione mariachi di A mi manera, la famosissima traduzione spagnola del cavallo di battaglia di Frank Sinatra, My Way. In effetti questo è un culto fatto proprio alla loro maniera. Qualcosa di inspiegabile lega tutti i malavitosi messicani alla Santa Muerte, una rappresentazione inventata dell’ineluttabilità del destino, che in quel tipo di vita è evidentemente ben presente. Michoacan: regione che vai, culto fuorilegge che trovi.
Scena 2 – A meno di mezz’ora a sud di Tuxtla Gutiérrez, la capitale del Chiapas, c’è la cittadina di Chiapa de Corzo: una grande piazza con porticati e una fontana al centro, bancarelle, mercato, piccoli anfratti in cui mangiare due taco con chorizo. Il cimitero sul confine del paese è addobbato all’inverosimile con i cempasúchil, i fiori arancioni del giorno dei morti. Fra le tombe ce n’è una diversa dalle altre, una foto di un uomo con i baffi, ben vestito e sotto il nome: Enrique Verdi. In un pomeriggio anonimo, al suo capezzale c’è un uomo mal vestito con lo zaino rovinato che fuma un sigaro. Si volta e sorride: «Siete venuti a visitarlo?». Qui a sud, Enrique Verdi è il protettore dei gangster.
Scena 3 – Interno salotto europeo, primavera. Sullo schermo di un computer, un cartone animato della Disney-Pixar sta per iniziare. È la storia di un bimbo messicano che sogna di fare il musicista, osteggiato dalla famiglia. È il día de los muertos e tutto è possibile, come insegna la vecchia nonna che dà il nome al film, Coco. Due appartamenti più in là risuona l’inconfondibile sigla di 007, il film s’intitola Spectre e l’inseguimento impossibile in elicottero che apre il film avviene proprio sopra lo Zòcalo, la piazza della capitale messicana, in piena Festa dei morti.
Scena 4 – Anno 1913. La tipografia di Antonio Vanegas Arroyo, al numero 43 di Segunda Santa Teresa, Città del Messico, pubblica l’ultimo numero dell’anno del suo foglio satirico. In prima pagina campeggia il ritratto di una donna borghese, con un grande cappello e abiti sontuosi. La donna però è uno scheletro. La Calavera Catrina (il teschio elegante) lo ha chiamato il suo autore, l’illustratore José Guadalupe Posada, ironizzando sulla classe arricchita dei primi anni del XX secolo, che disdegna le proprie radici. È un’immagine destinata a grande fortuna nel secolo successivo.
Con tutte queste scene nella testa si può solo affittare una moto a Città del Messico e partire per un viaggio durante i giorni dei morti. Nella terra dei Narcos, nella terra di Coco, nel trionfo dei teschi simpatici e allegri, nel pianeta del culto mafioso della Santa Muerte, fra milioni e milioni di fiori arancioni. Ecco fatto il miscuglio. Cultura pop cinematografica, tradizioni popolari, letture frettolose, iconografia pubblicitaria che mette tutto insieme in obbedienza al marketing.
Mentre guidi sulla statale che viaggia a Ovest, verso Morelia e poi il lago di Pátzcuaro, pensi che in fondo viaggi proprio per sfatare i miti che ti abbagliano quando parti. Scopri che l’antico culto dei morti, presente in tutte le società, qui non è tanto diverso dal nostro, è solo più colorato e sentito; che la festa in maschera di quei giorni è un’invenzione di un secolo fa e oggi mischia Halloween e cartoon; capisci che la Santa Muerte, pur assomigliando a tutto ciò, è ancora un’altra cosa, è il simbolo a cui affidarsi prima di correre un rischio, è la devozione pericolosa a un’entità un po’ borderline, sia essa un’effigie spaventosa con la falce, sia la figura di un assassino coi baffi diventato demone protettore.
Nell’aria frizzante di novembre che attraversa il casco, sotto nubi grigie che ricoprono le grandi pianure d’altura di quelle zone, vieni superato da file di camionette con soldati armati fino ai denti. C’è una guerra in corso qui, contro bande di trafficanti. Poi sfrecciano auto sportive senza targa, poi c’è un posto di blocco, poi c’è un casello occupato: venti ragazzi incappucciati hanno deciso di intascare il pedaggio. Costa pure meno della tariffa ufficiale, la devi mettere in un secchio che ti porgono. È un mestiere come un altro.
Viaggiando su due ruote tra le facce, i paesi, le colline, i murales e i superbi templi precolombiani cogli soprattutto l’innato spirito artistico di questo Paese e il gusto estetico che lo contraddistingue. Ovunque, dall’insegna di un negozio di cellulari alle stupefacenti facce delle statuette di Teotihuacan, dagli abiti delle Catrina in sfilata ai colori delle barche sui canali di Xochimilco, dalla cura degli addobbi funerari alle decorazioni della bandana zapatista, il Messico è disegnato con grazia, perfino negli anfratti meno battuti, dove solo lo sguardo di pochi può godere di un dipinto ben fatto o di una calligrafia perfetta.
La storia poi, e non da oggi, ha ammantato di violenza molte di queste regioni, ma non ha potuto togliere loro l’afflato espressivo e poetico che le caratterizza da sempre. Corri in moto e pensi che a dispetto delle cronache efferate e delle icone prefabbricate, per quanto ti riguarda, ogni pregiudizio «descanse en paz» (riposi in pace).