Mosca-Ankara, partita a due

by Claudia

Guerra (e pace) per procura – L’alleanza fra la Russia e la Turchia è soggetta a mille variabili, ma intanto può vantare il successo di aver avviato una trattativa fra le diverse fazioni libiche in attesa che entrino in scena altri attori (europei)

La partenza improvvisa del generale Haftar da Mosca, senza firmare il documento sulla tregua in Libia, ha messo a dura prova la pazienza del Cremlino, anche se Lev Dengov, il capo del Gruppo di contatto russo, si è mostrato ottimista. Ma la maratona negoziale svoltasi nel villino neogotico del ministero degli Esteri a Mosca il 13 gennaio ha messo in luce tutta la complessità della partita che Vladimir Putin sta giocando in Medio Oriente e in Nord Africa. I giornalisti del «Kommersant» riferiscono di una diplomazia quasi impossibile, con le delegazioni delle due controparti libiche, il generale Khalifa Haftar – «sponsorizzato» da Mosca – e del governo riconosciuto dall’Onu di Fayaz Sarraj – barricate in stanze diverse rifiutandosi di parlarsi faccia a faccia, con il ministro Serghej Lavrov a fare la spola e i ministri della Difesa russo e turco impegnati in un fitto colloquio tra di loro. A quanto pare, il motivo della rottura di Haftar è stato il no alla sua condizione di rimandare a casa i militari turchi chiamati dal governo di Tripoli. «Ora, tocca a Putin», è stato il commento di Recep Tayyip Erdogan.
Il tentativo di negoziato di Mosca è stato infatti l’ultima azione congiunta della alleanza Putin-Erdogan. I due presidenti in rotta con l’Occidente appaiono sempre più vicini, e dopo aver diviso le zone d’influenza in Siria ora si sono proposti come mediatori nel conflitto libico. Un’alleanza che appare ormai collaudata, dopo che Ankara e Mosca avevano sfiorato lo scontro dopo l’abbattimento del caccia russo in Siria, nel 2015. Un diverbio dimenticato, e Putin è volato a Istanbul per inaugurare insieme a Erdogan il gasdotto Turkish Stream. Anche se resta un’improbabile alleanza di avversari.
Anche in Libia, russi e turchi stanno giocando su sponde opposte. Mosca sostiene il laico Haftar, ospite frequente nella capitale russa. Ha potenti alleati al ministero della Difesa, anche perché ha studiato in Unione Sovietica e parla russo. Erdogan lo chiama «golpista» e «terrorista» e si schiera dalla parte di Sarraj, con il governo del quale condivide parentele che risalgono ai Fratelli musulmani. Anche in Siria Mosca e Ankara hanno giocato su fronti opposti.
Paradossalmente però, in Medio Oriente il Cremlino riesce a mettere da parte tutta l’emotività che l’ha spinto a paralizzare il dialogo con l’Europa e l’America, sfoggiando l’arsenale completo di diplomazia da realpolitik: negoziati, compromessi, spartizioni di sfere d’influenza e mosse abili e spregiudicate su scacchiere multiple. E così, dopo aver creato il triangolo di Astana – Turchia, Iran e Russia – in Siria, ora Erdogan e Putin si stanno muovendo insieme in Libia, nonostante il presidente abbia accusato Mosca di aver schierato in aiuto ad Haftar centinaia di contractor del «gruppo Wagner», già attivi in Siria. Il capo del Cremlino ha gelidamente replicato che «se ci sono combattenti russi in Libia, non sono stati mandati laggiù dallo Stato», una mezza ammissione. Una delle poste in gioco è il petrolio libico, sul quale i russi vorrebbero rimettere mano, e attualmente la zona dei giacimenti è sotto il controllo di Haftar, mentre Ankara vorrebbe una rinegoziazione che vada a favore del governo di Tripoli.
La partita però è di una complicazione vertiginosa. In Siria, il Cremlino deve vedersela con un Bashar Assad desideroso di emanciparsi ma totalmente dipendente dai militari russi nella guerra contro l’opposizione (spalleggiata dalla Turchia). L’apertura di un dossier congiunto sulla Libia potrebbe essere per Putin anche l’occasione di barattare con Erdogan altri dossier, per esempio, la tregua a Idlib. Ma l’avvicinamento russo alla Turchia ha messo in guardia l’Arabia Saudita e l’Egitto, due potenze regionali che sostengono Haftar.
E se fino a un paio d’anni fa Mosca poteva vantare con il Cairo un asse privilegiato (erano stati proprio gli egiziani a incoraggiare i contatti tra Haftar e i russi), ora l’Egitto guarda preoccupato ai contatti di Mosca con la Turchia e anche con l’Algeria, che la diplomazia russa vedrebbe come potenziale partner in una triangolazione sul modello di Astana, al posto dell’Iran. L’alleanza con la Turchia preoccupa anche gli europei, soprattutto dopo che il governo di concordia nazionale di Tripoli ha siglato con Ankara un accordo che estende i suoi confini marittimi a danno della Grecia e dell’Egitto.
L’offensiva di Erdogan rispecchia in qualche modo quella lanciata da Putin contro l’Occidente: manda i suoi militari per «difendere i fratelli turchi» in Libia, reagendo con istanze nazionaliste ed espansioniste a una crisi interna. Ma proprio questa similitudine fa temere la tenuta di un’alleanza retta da due personaggi con ambizioni simili e interessi contrapposti. Russia e Turchia hanno molti interessi comuni, tra cui il commercio, hanno nemici comuni a Bruxelles, ma nello stesso tempo hanno molti terreni di scontro, non ultimi l’Asia centrale ex sovietica e il Caucaso russo.
L’improvvisa partenza di Haftar è stata un duro colpo alla credibilità di Mosca, un segno della sua incapacità di controllare le proprie marionette. Un altro colpo è arrivato da Teheran, dove il missile di produzione russa della contraerea iraniana che ha abbattuto incidentalmente l’aereo civile ucraino ha fatto ricordare alla comunità internazionale le relazioni pericolose di Mosca con gli ayatollah, riaccendendo anche il conflitto tra Mosca e Kiev. Il Cremlino si è lanciato in avventure diplomatico-militari nel mondo arabo essenzialmente per distrarre l’opinione pubblica interna dal fallimento nel Donbass, e per mostrare all’Occidente di essere una potenza che non può essere isolata nonostante la crisi ucraina. I ragionamenti sul petrolio e sulle basi nel Mediterraneo sono subordinati a questo obiettivo, dimostrare di essere un global player che tiene le redini dei conflitti e risolve crisi, e che ha riempito i vuoti lasciati da Washington, e l’assenza o le divisioni tra i Paesi europei.
Il fatto che Mosca stia giocando una partita di puro potere, le rende anche più facile cambiare alleanze. E l’establishment russo non è così monolitico come appare all’esterno. Ci sono fazioni russe che hanno avviato contatti con Sarraj, sia perché considerano Haftar troppo inaffidabile, sia perché il generale è schierato con i loro avversari moscoviti. Tra i suoi alleati russi figura Evghenij Prigozhin, il «cuoco di Putin», il fondatore della «fabbrica dei troll» del Russiagate e della compagnia di contractors «Wagner», un attore molto potente che non ha ruoli formali, ma ha molti nemici a Mosca.
Inclusi alcuni amici di Putin: in caso di successo in Libia, Prigozhin potrebbe avanzare delle pretese sulla spartizione della torta, andando contro gli interessi di altri oligarchi soprattutto petroliferi, e acquisire un peso ancora maggiore nei corridoi del Cremlino. L’alleanza tra Putin ed Erdogan è soggetta quindi a una serie infinita di variabili. Ma intanto può vantare almeno il successo di aver avviato una trattativa tra le diverse fazioni libiche, in attesa dell’entrata in scena di attori europei come Angela Merkel.