Naufragio sfiorato

by Claudia

Reportage - Disavventure irlandesi sulla rotta del ritorno nella decima puntata del viaggio della barca a vela Mamé

Amo l’Irlanda. E non faccio differenza fra l’Ulster battagliero e l’Eire, fra protestanti e cattolici, fra unionisti e repubblicani europeisti. Certamente ci sarebbe molto da discutere sui due fronti e sulle ragioni storiche della loro divisione, su troubles («disordini») dei quali ancora ardono braci sotto le ceneri di un confronto di cui non si vorrebbe più sentir parlare ma che alcuni vorrebbero rilanciare. 
Di una cosa non ho dubbi: è un popolo adorabile, ospitale, cordiale, generoso e la loro terra è straordinariamente bella e affascinante. Dalle campagne verdeggianti alle coste selvagge e insidiose dell’ovest, dai fiumi dalle ampie anse ai porti turistici dell’est fino alle terre del nord, passando da Dublino a Belfast. Frequentare a più riprese gli irlandesi nella loro intimità famigliare è un regalo che però non lascia dimenticare ferite sociali appena rimarginate e le cui tracce sono in parte ancora presenti. Detto ciò, mai avrei pensato di rimanere in Irlanda così a lungo nella mia sfida solitaria, a vela dal Mediterraneo ai mari del Nord. Un bilancio che quest’anno mi fa dire di aver vissuto gli episodi più neri da quando navigo con Mamé, il mio vecchio sloop di 26 piedi protagonista dei miei viaggi per mare.
Prime avvisaglie. Tutto inizia l’estate scorsa ai primi di luglio, quando ritorno a Donaghadee, un villaggio della contea di Down a poche miglia da Belfast dove ho lasciato svernare Mamé in un ormeggio apparentemente sicuro, a buon mercato con un ingresso strettissimo. Trepidante all’idea di riappropriarmi della barca, il mio entusiasmo viene smorzato poco prima del mio arrivo quando vengo informato che il motore, un robusto e fedele fuoribordo (di modesta potenza ma estremamente importante) è stato rubato. Al disappunto per il danno subito ho dovuto aggiungere l’attesa di una dozzina di giorni prima di poterlo sostituire. Giornate spesso interminabili, trascorse con la speranza di riprendere il mare, fra un Fish&Chips e una birra al Grace Neill’s, il più antico pub d’Irlanda. 
Faccio la conoscenza con Lenny, uno skipper professionista: «Ti posso accompagnare fino a Newlyn, sulla punta della Cornovaglia dove potrai lasciare la barca o decidere se proseguire». Ottimo. Il mio proposito, una volta laggiù, è infatti quello di costeggiare per alcune decine di miglia verso est per poi attraversare il Canale della Manica da Falmouth e raggiungere le coste della Bretagna. Divideremo il percorso in due parti, propone Lenny, dapprima arriviamo fino a Howth, vicino a Dublino e lasciamo la barca: «Devo tornare perché ho del lavoro da sbrigare».
Ci ritroviamo a metà agosto. Fiducioso e soddisfatto, parto con Lenny per Ardglass, una trentina di miglia fino all’ultimo villaggio nordirlandese dove passiamo la notte. L’indomani sveglia di buon’ora. Ci attendono cinquantacinque miglia e almeno dieci ore di navigazione che si rivelano abbastanza dure a causa di un vento moderato e onda al traverso. Arriviamo a Howth, un vecchio borgo di pescatori di fronte a un’isoletta, è Ireland’s’ Eye (Occhio d’Irlanda). Disabitata e parco naturale protetto, su di essa ci sono i resti di una chiesa del VIII secolo. Un promontorio ci divide dal golfo di Dublino e a Howth si conclude la prima parte del viaggio. 
Lenny torna a casa mentre io organizzo la prima manutenzione del nuovo motore fuoribordo, obbligatoria dato che è in garanzia. Il vantaggio di essere a Howth è che si trova vicino all’aeroporto internazionale. Prendo il primo volo verso casa. Ma le sorprese non finiscono mai.
Dopo un paio di settimane sono di ritorno: tutto è come l’avevo lasciato e Mamé è pronta a ripartire. Manca solo Lenny che… «non posso continuare – mi avverte – devo essere in Portogallo e ho già il biglietto per l’aereo. Mi dispiace. Posso però darti dei consigli per proseguire il tuo viaggio». Approfitto dell’occasione per accogliere la proposta di Michele, un amico ticinese, che mi aveva manifestato piacere di condividere l’avventura. Lo chiamo immediatamente: «Riesci a prendere il primo aereo? Possiamo salpare domani prima dell’alba con l’alta marea e la spinta della corrente. Ci fermeremo ad Arklow dopo quaranta miglia. Quella cittadina si è fatta un nome per i passati fasti legati all’industria e alle costruzioni navali: il grande navigatore britannico Sir Francis Chichester vi si fece costruire il suo Gipsy Mounth III con cui vinse nel 1960 la prima regata transoceanica. Per ormeggiare entreremo dalla foce del fiume Avoca. Poi resteremo in attesa del momento più favorevole per affrontare un tappa impegnativa: la traversata del St. George Channel fino a Milford Haven, nel Galles, un porto commerciale molto trafficato dove speriamo di entrare con la luce del giorno. In tutto ci attendono un centinaio di miglia e almeno ventiquattr’ore di navigazione. Da lì a Newlyn ne restano altre centoventi. In due ci si dà spesso il cambio, almeno ogni paio d’ore, le notti sono ancora corte… Insomma, questo è il piano e si può fare».
E invece. Michele riesce ad arrivare in tempo e salpiamo. Impieghiamo più di sei ore per arrivare ad Arklow, fatichiamo a scapolare una punta, frenati dalla corrente che nel frattempo è girata. Dopo aver ormeggiato, riposato e fatto provviste, trascorsi un paio di giorni decidiamo di ripartire. Le previsioni sembrano essere propizie. Dobbiamo però fare ancora i conti con gli orari della marea e, se vogliamo approfittarne, dovremo salpare a notte fonda con un vento da sud-ovest che si sommerà aiutandoci nella traversata. 
Inizialmente sfruttiamo il motore. Dopo circa un’ora vado all’albero per issare la randa, Michele è al timone. Il forte rollio della barca rende la manovra faticosa. Quando finisco sono esausto e vado a riposarmi all’interno. Tutto sembra procedere finché un rumore mi sveglia di soprassalto: «Cos’è successo?» chiedo a Michele. «Non lo so, improvvisamente ho sentito un gran silenzio». Il rumore potevo sentirlo solo io dall’interno. Non sento più il motore, controllo a poppa e… il fuoribordo è sparito! Strappato e trascinato sul fondo del mare che in quel punto è a più di quaranta metri.
Dovremo rassegnarci e tutto sommato siamo stati fortunati. La collisione non ha causato avarie evitando così la peggiore delle situazioni: un naufragio e l’abbandono della barca. Ma che cosa ha provocato l’incidente: un container alla deriva? Un grosso tronco arrivato dal fiume? Un cavo d’acciaio sommerso? Solo congetture. Come quella di sommergibili russi che giravano in quella zona… una leggenda risalente agli anni Sessanta. Restiamo calmi e discutiamo sul che fare. Abbiamo percorso una decina di miglia. Decidiamo di tornare a vela tentando la risalita del fiume. Un’impresa che accantoniamo dopo un paio di tentativi: il vento è troppo fiacco e una leggera corrente contraria impedisce la manovra. 
Non ci resta che dar fondo all’ancora nella baia adiacente all’ingresso della foce e chiamare soccorso alla Guardia Costiera. In meno di un quarto d’ora veniamo raggiunti dall’imbarcazione dei volontari del RNLI (Royal Navy Lifeboat Institution) che in pochi minuti ci riporta all’ormeggio. Siamo al sicuro. Ci liberiamo delle cerate, le appendiamo ad asciugare e ci regaliamo un po’ di sonno. Nel frattempo, sfuma l’idea di continuare. Sistemiamo Mamé per l’inverno e torniamo a casa. Sarà per l’anno prossimo.
Dopo un paio di mesi di peripezie, fra i tanti ricordi irlandesi mi resta quello dell’airone cinerino che ogni tramonto passeggia sulla banchina di Howth a caccia di cibo e l’espressione di Daisy (mi piace chiamarla così), foca sorniona, mentre fa capolino dalle fredde acque del porto di Howth. Istantanee di un viaggio interminabile, con la speranza di riuscire finalmente a tornare sulla costa bretone.