Parole malfamate

by Claudia

La storia della parola «Bulgaro» e il destino di un popolo nell’ultimo libro dello storico della lingua Enrico Testa

All’interno della molto vivace collana «Parole nostre», che la casa editrice il Mulino va pubblicando da qualche anno affidando a singoli linguisti italiani di prim’ordine la trattazione di una parola-mondo dell’italianità storica (Ciao, Pizza, Bravo, per esempio), esce ora Bulgaro. Storia di una parola malfamata di Enrico Testa. Bulgaro abita espressioni di vario tipo; come quando si dice maggioranza bulgara, editto bulgaro, ma poi anche, in altri ambiti, pista bulgara, pasto bulgaro ecc. I significati di questi usi sono, come gli usi stessi, variabili e con variabili significati; ma ciò che li accomuna è il valore puntualmente sminuente delle espressioni.
Non si tratta in effetti di veri e propri insulti; non a caso (forse lo dice anche Testa in un qualche punto del suo libro) l’uso è quasi sempre aggettivale e di regola mai queste qualifiche assumono la forma del sostantivo: in pratica, questa fraseologia è più obliqua e meno illocutiva di un’ingiuria. Il problema sta nel contesto che viene montato, nel risuonare socioculturale. La storica bulgara Maria Todorova allude appropriatamente a «una malerba linguistica» (lei parla dei Balcani tutti insieme e del lessico associato all’etnonimo, ma nel libro di Testa le affinità con l’uso della famiglia lessicale legata a Balcani sono spiegate per bene).
Il riferimento alla Bulgaria e ai suoi abitanti è fucina lessicale importante per l’italiano, se è vero (come sembra) che da quella fabbrica derivino per esempio il toponimo carducciano Bolgheri, ma anche un termine come buggerare che significa «fregare», «raggirare», e pure «sodomizzare». Si potrebbe poi dire anzi che il rinvio a quell’area geografica e al suo contesto sociale sia prerogativa dell’italiano («locuzioni simili paiono assenti in altre lingue») e che la ricerca vada indirizzata non solo nel contesto delle connotazioni legate al blocco sovietico e alla sua storia ma pure a vicende molto più antiche, come testimonierebbe tra l’altro l’età degli stessi due termini qui appena richiamati. Del resto, recita bene Testa, a fronte di un uso così ancora vivo, «i regimi comunisti dell’Est sono finiti da un pezzo» e nessuno ci ha ancora spiegato perché in simili espressioni si scelga puntualmente di richiamare la sola Bulgaria e non un’altra delle realtà nazionali di quell’area geopolitica, l’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia, la stessa Russia.
Il racconto delle origini e dei destini delle espressioni che contengono l’aggettivo bulgaro ci insegna un paio di cose molto generali sulla storia dell’italiano e sulla storia delle lingue. Se, come ci dice Enrico Testa, «i segni linguistici non si spiegano da soli e la lingua non può essere considerata “come sistema a sé stante”», l’influenza tra lingua e cultura va considerata nella sua reciprocità: pregiudizi e stereotipi avranno sì contribuito ad accreditare l’uso di bulgaro come lo conosciamo bene oggi, ma anche, all’inverso, il ricorso insistito a queste espressioni avrà indotto qualche anima semplice a sviluppare un’idea almeno ingenerosa della Bulgaria e dei Bulgari. Siamo dalle parti di quella che gli esperti chiamano «teoria del determinismo linguistico», che ebbe fortunato corso durante il Novecento e il cui imperatore supremo fu il linguista americano Benjamin Lee Whorf.
Potrà forse stupire infine il cocciuto radicamento storico (e sociale: l’uso di bulgaro sembra non conoscere confini sociali e «intellettuali») di questo vocabolario così poco rispettoso. Ma qui ammonisce Claude Lévi-Strauss e con lui lo stesso Enrico Testa: «una società è sempre soggetta alla incidenza di altre società e di stati anteriori del proprio sviluppo e su una società e sulle forme delle sue rappresentazioni collettive si fanno sentire anche fasi precedenti del proprio sviluppo ed elementi remoti della propria storia».