Della loro povertà avevano sempre riso. Non della povertà in generale. A quella, se capitava di parlarne, dedicavano la sommessa indignazione con cui si stigmatizzano le Grandi Ingiustizie Mondiali. Non li riguardava da vicino. Si materializzava in bambini nudi con la pelle scura, così spossati da non avere la forza di allontanarsi le mosche dalle palpebre. Non sei mai povero nei Paesi ricchi. Al massimo sei senza soldi.
Loro erano senza soldi.
«Non so se te ne sei reso conto, ma siamo rimasti senza un soldo».
Gli avrebbe detto proprio così. Avrebbe aperto il frigorifero, dove una crosta di Parmigiano, due mezzi limoni e una barretta di muesli sottolineavano il vuoto e avrebbe coraggiosamente sorriso.
L’importante era riuscire a sorridere. Finché sorridi ogni concreta mutazione di status è esclusa.Ricchi non erano mai stati, e nemmeno benestanti, Betta e Tom. Ogni tanto qualche offerta di lavoro incassata come un colpo di fortuna, portava in casa improvvise allegrie spendaccione.Qualche turno di doppiaggio per Betta, tre mesi sul set come aiuto dell’aiutoregista che Tom non osava rifiutare. Dieci anni fa l’avrebbe fatto, ma sapeva di non poterselo più permettere. Da 13 mesi, comunque, quella sua nuova modestia accomodante non veniva più messa alla prova. Nessuno proponeva lavoro. Né a Betta, diplomata attrice da un corso triennale intitolato a Memè Perlini, né a Tom, autore del lungometraggio Gli schiavi della libertà, applaudito fuori concorso al festival di Locarno.
La posta elettronica, consultata affannosamente ogni due ore, non portava altro che inviti alle proiezioni e alle presentazioni dei film degli altri, pubblicità di pillole che pompavano il pene, occasioni speciali per vacanze impossibili. I telefoni cellulari tacevano. Betta si guardò attorno alla ricerca del suo, non era mai troppo lontano da lei. Lo ritrovò e, per un attimo, lo guardò intensamente. Inutile: non emetteva alcun richiamo. Poi ricominciò a guardarsi attorno, quasi dovesse cercare ancora qualcosa. Quello spazio a cui aveva sempre pensato con parole gradevoli come living e loft, le apparve per quello che era, 28 metriquadri occupati da un divano che di notte diventava letto, da un tavolo da pranzo troppo grande, da una poltrona di pelle sfondata al centro e da una libreria dove i libri giacevano accatastati senza un ordine. Dietro due porte chiuse, un bagno angusto oppresso da 4 riproduzioni di Chagall perennemente umide e la cameretta, 10 metri quadri di cui Sara si lamentava ininterrottamente. Sulla parete in fondo una cucina dipinta di un rosso chiassoso.
«Questa non è una casa, è una tana», diceva Sara.
«Sei l’unica che non dorme con l’odore delle cotolette sotto il naso, taci e ringrazia».
Dialoghi ricorrenti: «Non posso invitare nessuna delle mie amiche».
«Neanch’io potevo invitare le mie amiche quando avevo la tua età».
«Non è vero. Il nonno era ricco».
«Il nonno non era ricco. Era normale».
«Beh, almeno era normale. Voi non siete neanche normali»
Chissà se provando, per una volta, a non pronunciare la frase prevista, la realtà sarebbe cambiata. Questa non è una casa, è una tana. Hai perfettamente ragione, figlia mia, questa non è una casa è una tana scavata nella terra per difendere me te e tuo padre da una denuncia per vagabondaggio. Abbiamo una «fissa dimora». E comunque non più per molto. Doveva dirlo a Sara che non pagavano il mutuo da sette mesi?
«Voi non siete neanche normali».
Si dice o non si dice ai figli che le figure genitoriali sono nella merda fino al collo? Si ripropose di chiederlo al dottor M. e subito dopo si ricordò che non poteva più permettersi nemmeno il suo conforto. Fra due ore sarebbe andata all’ultima seduta. Gli avrebbe spiegato che non poteva saldare, per ora, il debito dell’ultimo mese e che comunque non era in grado di far fronte nell’immediato futuro ecc. ecc.
Per un attimo il pensiero dell’austero accogliente silenzio di M. le provocò un leggero sollievo. Si sarebbe messa la gonna grigia, quella con i bottoni davanti. Ne avrebbe sbottonati due. A M. non sfuggiva mai niente. Anche se non commentava che molto raramente le sue illegittime provocazioni. Probabilmente le avrebbe offerto un nuovo mese di credito. No, non per la promessa insita nei due bottoni slacciati, ma perché, nonostante tutte le ingessature freudiane a cui si sottoponevano entrambi, dopo undici anni, probabilmente, si era affezionato a lei. Come un parente. Come uno zio a pagamento.
«Essere senza soldi si addice alla condizione di giovinezza», gli aveva detto nel corso della seduta della settimana scorsa, con un’espressione spavalda, «siamo sempre stati giovani, io e Tom. Giovani, poveri, piuttosto belli e molto intelligenti».
La prima e la terza condizione si erano rivelate transitorie.
La seconda persistente. La quarta da dimostrare.
Ma questo non doveva dirlo a nessuno.
Neppure a sé stessa. (Continua)