Ogni mattina Naima si sveglia e abbraccia sua figlia, prova a coprirla con le poche cose che ha a disposizione. La bacia e la culla, come ogni madre fa con un neonato, in qualunque angolo del mondo. Poi Naima piega le due coperte che ha, attraversa la strada per qualche centinaio di metri fino a raggiungere l’edificio dove si trova il GDF (Gathering and Departure Facility) gestito dall’UNCHR a Tripoli. Il GFD nei progetti iniziali avrebbe dovuto essere un centro di raccolta per migranti prima della partenza, prima cioè dei ricollocamenti in paesi terzi. Ma in questi dieci mesi di guerra, il GDF si è di fatto trasformato in un nuovo centro di detenzione, sovraffollato e a rischio di essere colpito da attacchi aerei.
Prima dell’inizio della guerra, il 4 aprile 2019, Naima viveva nel quartiere di Qasr bin Gashir, alla periferia sud della capitale libica, esattamente nelle aree colpite all’inizio dell’offensiva lanciata dal generale Khalifa Haftar. Sua figlia è nata sei giorni dopo l’inizio della guerra, Naima impaurita ha deciso come migliaia di altri, di scappare. È una dei 150 mila sfollati dell’ultimo conflitto libico. Suo marito, sudanese come lei, era scomparso due mesi prima, a febbraio. È ormai trascorso un anno e Naima non sa più nulla di lui. «La prima volta è stato rapito e portato a Sabha, 640 chilometri a sud di Tripoli, le milizie lo hanno trattenuto fino a che la nostra famiglia dal Sudan non ha pagato un riscatto per liberarlo. Da quando era tornato a Tripoli viveva con il terrore che accadesse di nuovo, e così è successo. Questo luogo è il nostro inferno», racconta la donna, costantemente trattenendo le lacrime.
Naima e suo marito non erano arrivati in Libia per attraversare il Mediterraneo, non volevano pagare un trafficante e andare via. Per loro la Libia, nel 2013, avrebbe dovuto essere un luogo di arrivo, non di transito. Un Paese in cui lavorare e da cui spedire a casa le rimesse dei propri guadagni. «Ma dal 2015 è cambiato tutto, il Paese usciva dalla guerra civile e le milizie armate hanno preso il controllo di qualsiasi cosa, non puoi uscire di casa e camminare, in Libia, senza temere di essere rapito, torturato da ragazzini armati fino ai denti che chiedono denaro».
I primi due anni a Tripoli Naima ha lavorato come infermiera, suo marito come muratore. Oggi sua figlia ha otto mesi e non conosce suo padre, dopo la fuga da Qasr bin Gashir per paura delle bombe Naima e la bambina vivono sotto un ponte, con altre venti famiglie, esposte al terrore delle bombe. Ma il ponte è il luogo più vicino al centro gestito dall’UNHCR e tutti sperano di riuscire ad avere un posto su un volo per scappare dal Paese, e essere tratti in salvo. Naima ha i documenti timbrati dalle Nazioni Unite, come migliaia di altre persone, molti attendono da pochi mesi, qualcuno da tre anni. I posti in Europa non ci sono, i voli umanitari sono sempre troppo pochi e le donne ogni mattina agitano le richieste di protezione umanitaria davanti alla rete metallica che divide il GDF dalla strada al Sikka, a Tripoli, sperando di avere un aiuto. Una risposta che, però, non arriva mai.
Asad al-Jafir, ha trent’anni, è un dipendente della Mezzaluna rossa libica, da anni si occupa con passione sia di aiutare i cittadini libici in stato di bisogno, sia di sostenere (quando le milizie lo consentono) i migranti nei centri di detenzione gestiti dal Ministero dell’interno. Da quando è iniziata la guerra Asad continua ad aiutare le famiglie anche in strada, dove, sottolinea «le donne sono esposte al pericolo quotidiano di essere abusate sessualmente e gli uomini e i ragazzi rischiano di essere reclutati forzatamente e costretti a combattere al fronte».
Asad tiene il conto delle famiglie in strada, tra loro ci sono circa trenta bambini, alcuni sono neonati e non c’è un bagno, talvolta la moschea nelle vicinanze apre alle donne e ai bambini e concede loro di lavarsi e ripararsi un po’. «La verità – continua Asad al Jafeer – è che non c’è un luogo ormai in città che sia al sicuro dai bombardamenti, lo dimostra quello che è accaduto al centro di detenzione di Tajoura».
Asad fa riferimento all’attacco delle truppe del generale Haftar sul centro di Tajoura del 2 luglio scorso, quando due bombe uccisero a mezzanotte 53 persone e ne ferirono circa 130, in una prigione per migranti. Uno dei centri ufficiali gestiti dal DCIM (Dipartimento anti-immigrazione clandestina) che per conto del Ministero dell’interno del Governo Sarraj, gestisce i luoghi di detenzione per migranti.
«Le Nazioni Unite hanno grandi responsabilità per questo. I migranti che sono intrappolati nel Paese andrebbero evacuati all’istante. Queste donne e bambini ormai non hanno scelta, o restare qui rischiando di morire o pagare un trafficante e rischiare la vita in mare», conclude. Le organizzazioni internazionali hanno ripetutamente avvertito i governi europei dei rischi che stanno correndo i circa seimila migranti detenuti nelle zone vicine al conflitto in corso.
Lungo la strada al Sikka, si trova un altro dei centri di detenzione governativi, Trik al Sikka, ospita circa trecento persone. Il centro è diviso in due sezioni, quella maschile ospita la maggioranza delle persone. È una gabbia circondata da una rete per tutta la sua estensione, sui tre lati e – nello spiazzo – quasi non si vede il cielo, perché la rete metallica è stata posizionata anche a coprire l’estensione esterna, per evitare che qualche migrante provasse a scappare. Per arrivare all’interno del centro di detenzione bisogna superare due grandi cancelli serrati da due lucchetti ciascuno. I migranti, di fatto detenuti, gridano: «Benvenuti all’inferno», «Portateci via». Tutti chiedono aiuto. Ci sono solo sei bagni per centinaia di persone, tre sono intasati, i medici non arrivano e a terra, stesi su materassi luridi, ci sono malati e infermi, spesso giovanissimi.
Quando la confusione si placa, in lontananza si sente il rumore dei combattimenti. Tutti sanno che la guerra è vicina, e che potrebbe toccare a loro, quello che è successo ai migranti detenuti a Tajoura.
Muhammad oggi è recluso a Trik al Sikka. È uno dei sopravvissuti delle bombe di Tajoura. Dopo il bombardamento è scappato, insieme a decine di altri migranti, ha cercato riparo, lontano dal fronte ma anche lontano dalle milizie che lo avrebbero costretto nel migliore dei casi a lavorare senza essere pagato e nel peggiore dei casi a combattere, con i pochi soldi che è riuscito a nascondere in tasca prima della fuga ha contattato un trafficante e ha provato ad attraversare il Mediterraneo su un gommone. Era lo scorso novembre. La Guardia Costiera libica ha intercettato l’imbarcazione e riportato a riva, a Tripoli, tutte le ottanta persone che c’erano sopra.
Da allora Muhammad è di nuovo un detenuto, senza sapere nulla della sua sorte, se e quando uscirà di lì, perché questo prevede la legge libica: chiunque entri nel Paese senza un invito, un permesso di soggiorno o un visto valido è considerato un clandestino e destinato, quindi, a una reclusione sine die in un centro di detenzione. Inoltre la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra del 1951, quindi non riconosce lo status di rifugiato, non fa perciò distinzione tra chi arriva nel Paese perché in fuga da guerra e dittature o perché a rischio di persecuzione. Per la legge libica, le persone entrate irregolarmente sono tutte clandestine, tutte uguali e tutte condannate alla stessa sorte.
La struttura di Trik al Sikka è uno dei centri nominalmente gestiti dal Ministero degli Interni del GNA (Governo di Accordo Nazionale) di Fayez al Sarraj. Ma poiché il confine tra legalità e illegalità in Libia è nebbioso, è difficile dire esattamente quanti centri siano effettivamente sotto il controllo del governo e quanti effettivamente nelle mani delle milizie armate.
Inoltre, ad aggiungersi ai centri di detenzione ufficiali ce ne sono decine di altri gestiti direttamente dai trafficanti e dalle loro gang, dove i migranti descrivono di essere stati sottoposti ad abusi e ricatti di ogni genere. Muhammad ha subito quegli abusi per mesi, sia nei centri di detenzione legali che illegali, sia al confine meridionale, che nel deserto e sulla costa. Ha subìto abusi anche nel centro di detenzione di Tajura, dove afferma che le milizie avessero il dominio assoluto nonostante fosse nominalmente gestito dal governo.
La notte in cui è stato catturato in mare, dopo il bombardamento e la fuga, Muhammed ha perso le scarpe, è scalzo da allora. I miliziani che gestiscono il centro di detenzione, minacciando costantemente lo staff ufficiale del Ministero dell’interno, gli hanno sottratto il cellulare. Muhammad non ha più potuto contattare sua moglie in Ghana. L’ultima volta, poco prima di salire sul gommone per tranquillizzarla. «Andrà tutto bene» le aveva detto. Muhammad non ha potuto avvertirla che è ancora vivo. È il pensiero che più lo strazia, pensare a sua moglie che lo crede morto.