Un Putin è per sempre

Vladimir Putin sta portando a termine la riforma costituzionale più rapida della storia. Presentata dal presidente russo – in un discorso alle Camere riunite trasmesso a reti unificate, su maxischermi e perfino proiettato sulle facciate degli edifici di Mosca – intorno all’ora di pranzo del 15 gennaio, il giorno dopo veniva già discussa da un gruppo di lavoro di 75 persone convocato in poche ore. Il 20 gennaio la legge sugli emendamenti costituzionali è già pervenuta alla Duma: i capigruppo lo approvano in 20 minuti e il Comitato per la struttura dello Stato in 40, e il 22 gennaio, una settimana dopo che i russi hanno scoperto all’improvviso di avere bisogno di una Costituzione riscritta, i deputati votano la legge in seduta plenaria.
Una fretta comprensibile: secondo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, «ogni iniziativa del presidente riceve un’attenzione particolare della società». La riforma verrà sottoposta anche a un «voto panrusso» (le autorità evitano stranamente la parola referendum), che si terrà il 12 aprile, il giorno dell’anniversario del primo volo dell’uomo nello spazio, un chiaro richiamo a una delle date storiche di cui i russi vanno più fieri.
In una settimana, Putin ha lanciato una riforma costituzionale, licenziato il governo di Dmitry Medvedev rimasto in carica per otto anni e formato un nuovo esecutivo. Anche il procuratore generale Jurij Chaika è stato mandato a casa, e si parla di licenziamento anche per il capo del Comitato d’indagine (una sorta di supermagistratura) Aleksandr Bastrykin e la presidente del Senato Valentina Matvienko. Il nuovo premier Mikhail Mishustin e buona parte dei nuovi ministri sono sconosciuti al largo pubblico. Nessuno sapeva nulla della riforma fino a che Putin l’ha annunciata davanti alle telecamere, e il governo ignorava il proprio licenziamento, un modo di procedere abbastanza tipico del presidente. In altre parole, Mosca viene scossa da un terremoto.
Il motivo di questo terremoto è abbastanza ovvio: il «problema-2024», l’anno in cui Putin completerà il suo quarto (e secondo consecutivo) mandato presidenziale, diventando non più candidabile. Una scadenza che la Russia attendeva con un misto di speranza e paura: la consapevolezza della necessità di un ricambio generazionale e soprattutto della fine della nuova guerra fredda con l’Occidente si mischia al timore che l’avvicendamento dopo vent’anni di governo dello stesso uomo, possa portare a uno scossone che distruggerebbe il sistema. L’attesa però era semmai per il trucco legale che Putin avrebbe trovato per rimanere al potere: nel 2008 aveva «ceduto» per quattro anni il Cremlino al fido Medvedev, ma oggi lo scontento sia del popolo che delle élite è troppo forte per poter affidarsi a un «delfino». Putin ha deciso di giocare d’anticipo, senza aspettare la formazione di cordate e candidature alternative, mostrando di non avere nessuna intenzione di fare l’anatra zoppa per i prossimi quattro anni.
La redistribuzione dei poteri proposta vedrà infatti il capo di Stato subordinare a sé anche il potere giudiziario, con l’attribuzione del diritto di licenziare i capi della Corte Suprema e della Corte Costituzionale. Quest’ultima potrà anche, su richiesta del presidente, bloccare le leggi votate dal parlamento come «incostituzionali», una sentenza definitiva a differenza del veto presidenziale, superabile con un voto a maggioranza di due terzi della Duma. Il parlamento sarà compensato con il diritto di discutere e ratificare non solo la nomina del premier, ma anche dei suoi ministri, e potrà chiederne il licenziamento.
Il capo del governo però continuerà a essere proposto dal presidente e non espresso dal parlamento, e il Cremlino potrà licenziare l’esecutivo, tutto o in parte, in qualunque momento. Inoltre, il presidente avrà il diritto di nominare senza approvazione parlamentare (se non una opzionale «consultazione» con il Senato) i ministri dell’Interno, della Difesa e degli Esteri: erano già nella competenza del capo dello Stato per prassi, ora diventerà norma costituzionale.
Ma la novità maggiore riguarda il Consiglio di Stato, che da organismo consultivo che include governatori, deputati e ministri, diventerà organo costituzionale che «deciderà le linee guida della politica interna ed estera». Una sorta di supergoverno formato dal presidente, che ricorda molto l’organismo guidato da un altro leader postsovietico inamovibile, Nursultan Nazarbaev, che dopo trent’anni di presidenza del Kazakistan ha assunto la guida del «Consiglio di Stato» insieme con il titolo ufficiale di «padre della nazione». La «variante kazaka» era stata considerata una delle soluzioni più probabili di Putin al «problema-2024»: l’alternativa, la formazione di un nuovo Stato con la Bielorussia, avrebbe azzerato il contatore dei mandati presidenziali, ma avrebbe anche costretto il leader russo alla coabitazione con un politico astuto e ambizioso come Aleksandr Lukashenko.
Quali funzioni avrà il nuovo Consiglio di Stato non è chiaro: la legge che le specifica verrà approvata soltanto dopo il referendum sulla Costituzione. Non è chiaro nemmeno chi sarà il beneficiario della nuova presidenza ancora più potenziata: Putin non considera «fondamentale» la clausola sui due mandati presidenziali consecutivi, ma non ha detto nemmeno di volerla eliminare. Il nuovo premier Mikhail Mishustin per ora sembra troppo sconosciuto per diventare il «delfino». Il 53enne ingegnere che ha guidato per dieci anni il fisco russo, introducendo un sistema di monitoraggio online di tutti gli scontrini, appare il perfetto putiniano 2.0: moderno, tecnologico, lontanissimo dalla politica e creatore di un potente strumento di controllo totale.
Le rivelazioni del leader dell’opposizione Aleksey Navalny sulla inspiegabile ricchezza del premier – villa nella zona più prestigiosa delle dacie dei Vip, redditi milionari (in euro) di una moglie senza lavoro, viaggi con gli oligarchi in Sardegna della sorella e scuola privata College Champittet a Losanna per la nipote (retta minima 24 mila franchi più 54’500 franchi per vitto e alloggio) – dimostrano soltanto che Mishustin è perfettamente integrato nel sistema di potere russo. Così come molti suoi giovani colleghi, già finiti sotto indagine per ville, appartamenti e acquisti sospetti fatti con soldi statali.
L’improvviso cambiamento del-l’esecutivo è stato seguito dal licenziamento dal governo di diversi fedelissimi, come il ministro della Cultura Vladimir Medinskij, uno degli autori della macchina della propaganda. La responsabile della Sanità Veronika Skvorzova e il ministro del Lavoro Maksim Topilov hanno pagato il prezzo della devastante «ottimizzazione» che ha dimezzato i posti letto ospedalieri e della riforma delle pensioni. Medvedev e Chaika erano stati troppo screditati dai film-indagine di Navalny sui loro affari loschi. Ma soprattutto sembra un segnale alle élite russe: nessuno può sentirsi al sicuro. E meno che mai pensare a un disgelo: uno degli emendamenti introduce nella Costituzione la priorità della legge russa sul diritto e i trattati internazionali, un segno di ulteriore allontanamento della Russia dall’Occidente.

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