Un piano, ma non per due Stati

Il piano di Trump per Israele e Palestina fotografa la realtà di fatto. Tra Mediterraneo e Giordano non c’è che un solo Stato, quello ebraico. Dentro a questo Stato, sotto stretta vigilanza israeliana, alcune enclave palestinesi aggruppate intorno a Ramallah in Cisgiordania e collegate per vie improbabili alla Striscia di Gaza. Forse questo piano non sarà mai codificato, o forse sì. L’importante è sapere che salvo una nuova guerra, in cui Israele sia definitivamente abbattuto e annichilito, non ci sono alternative.
La diplomazia internazionale, inclusa retoricamente anche quella americana, continua a parlare di due Stati. Di fatto, questa ipotesi è decaduta da almeno un ventennio. In particolare, da quando l’amministrazione di George W. Bush concordò con il premier israeliano Ariel Sharon di gelare la situazione creata sul terreno e di escludere qualsiasi limite agli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Nel frattempo, molte di queste colonie sono diventate cittadine, alcune vere e proprie città fortificate. Protette da un muro di impressionante cogenza, costruito asseritamente da Israele per bloccare gli attentati terroristici palestinesi. Questo muro esercitava ed esercita un’altra e forse più importante funzione: quella di delimitare lo spazio ebraico rispetto a quello arabo-palestinese nei territori biblicamente definiti da Gerusalemme Giudea e Samaria.
Dopo l’annuncio alla Casa Bianca, Jared Kushner, il plenipotenziario di Trump in questi negoziati, ha fatto sapere che Washington non vuole avviare l’implementazione del progetto prima del voto israeliano di marzo. Sicché Netanyahu ha dovuto rinunciare all’idea di approvare formalmente il piano Trump in una seduta speciale del Consiglio dei Ministri prevista il 2 febbraio. Se quindi questa idea di stabilizzazione della situazione sul terreno doveva servire al premier israeliano per migliorare le sue chance nella prossima competizione elettorale, l’effetto sarà mitigato.
Ma l’aspetto forse più interessante di questa fase è la reazione molto variegata del mondo arabo e islamico. È chiaro che prima di annunciare un piano di questa portata, gli americani non potevano non consultare (meglio: avvertire) i loro soci arabi. I quali però si sono necessariamente divisi su una questione troppo scottante per le loro opinioni pubbliche. In particolare, la Giordania ha reagito molto vivacemente, come d’altronde era inevitabile. Data la forte componente palestinese della sua popolazione, re Abdallah era costretto, quantomeno, ad alzare la voce. Consapevole del rischio che una crisi in Cisgiordania avrebbe immediate ripercussioni sul fronte interno.
Certo, ritrovarsi anche sotto il profilo del diritto interazionale lo Stato d’Israele lungo tutta la frontiera del Giordano è un cambiamento fondamentale della collocazione geopolitica del suo Regno. Diverse le posizioni assunte da altri paesi arabi. In particolare, l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Confermando quanto già si sapeva, non sono scesi in campo per solidarizzare con i «fratelli» palestinesi, ma hanno sostanzialmente, sia pure con prudenza, dato luce verde all’intesa raggiunta da Trump e Netanyahu. Ovvia invece la reazione dei Fratelli Musulmani in tutta la regione e del loro leader effettivo, il presidente turco Erdogan.
Sul piano geopolitico, interessanti tra l’altro le «concessioni» israeliane ai palestinesi. Lo Stato ebraico formalizza il carattere arabo di alcuni modesti territori nel nord, nell’area del cosiddetto Triangolo della Galilea. Obiettivo: rendere più omogeneo Israele, liberandolo dalla presenza di circa 100mila arabi in un’area strategicamente sensibile. Importante anche la cessione di qualche pezzo di deserto nel sud-ovest, che non avrà effetti etno-demografici particolari, ma simboleggia la disponibilità di Israele a cedere qualcosa (molto poco) in cambio della legittimazione dei suoi possedimenti cisgiordani.
I prossimi mesi e anni ci diranno se questo progetto diventerà realtà. Di sicuro oggi possiamo constatare che la questione palestinese, relegata sino a ieri a problema umanitario, torna ad avere una sua pregnanza geopolitica.

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