Cecilia Bartoli diventa Ifigenia

by Claudia

All’Opernhaus di Zurigo fino alla fine di febbraio

Iphigénie en Tauride, la tragédie lyrique in quattro atti di Christoph Willibald Gluck aveva avuto un esito trionfale al suo varo a Parigi nel 1779, e fu replicata per centocinquanta volte in tre anni, rimanendo in repertorio quasi sino a fine Ottocento. È stato un trionfo anche per la nuova produzione zurighese dell’opera gluckiana, decretato dai convinti applausi tributati dal pubblico premieristico soprattutto a Cecilia Bartoli.
L’argomento del libretto di Nicolas-François Guillard è tratto da Euripide, seppur elaborato attraverso opere più moderne, in particolare il dramma in prosa Iphigénie en Tauride del 1757 di Guimond de La Touche. Per i momenti fra i più lirici e toccanti del teatro di Gluck, il libretto può considerarsi il migliore da lui messo in musica. Questo suo ultimo lavoro per le scene è l’opera in cui meglio sono trasposte le teorie della riforma operistica di Gluck, rappresentando, visti i non pochi prestiti da sue opere precedenti, un sunto delle sue idee artistiche. Ma è nella configurazione musicale/melodica di Ifigenia che Gluck raggiunge l’apice: la giovane entra subito in scena come sacerdotessa di Diana, con il compito di assistere ai sacrifici umani in uso in Tauride.
I pregressi erano già stati trattati dal compositore in Iphigénie en Aulide. Una figura, quella di Ifigenia, irrazionalmente sopraffatta dagli accadimenti, e che regala fin dall’inizio attimi elegiaci e tenebrosi, drammatici e febbrili. La produzione è certo da annoverare fra le migliori degli ultimi tempi, in specie per la prestazione dell’Orchestra La Scintilla (con strumenti storici) diretta dal maestro milanese Gianluca Capuano, preciso e trascinante.
E per Cecilia Bartoli, sempre in grado di adattare la sua mirabile voce differenziata alle esigenze del personaggio: una Ifigenia disperata e consapevole della maledizione che pesa sulla sua famiglia, e quasi persa nella fatalità degli eventi quando supplica Diana perché le conceda la morte nel I Atto, più convulsa in altri momenti. Bravi anche Stéphane Degout nei panni di Oreste, notevole nel II Atto con «La calme rentre dans mon coeur», e Frédéric Antoun in quelli di Pylade, un timbro caldo per un personaggio permeato di sentimenti d’affetto e amicizia per Oreste. Ottimo Jean-François Lapointe nel ruolo di Thoas, re degli Sciti in Tauride, ora duro, ora in preda ai più tetri presentimenti come nell’aria del I Atto «De noirs pressentiments mon âme intimidée». Lodevole anche il Chor der Oper Zürich diretto da Janko Kastelic.
Oltre che sul confitto famigliare e su quello fra famiglia e società, la raffinata regia statica di Homoki propone una lettura incentrata sulla protagonista. Un vero coup de théâtre, inoltre, è quello di confondere Thoas con l’Agamennone del sogno di Ifigenia, e Clitemnestra con la dea (ex machina) Diana. Eleganti le scene di Michael Levine su cupi toni di nero e blu.