La notizia è stata data via social media, un post su Facebook rilanciato poi su Twitter: Ehsanullah Ehsan, nome di guerra dell’ex-portavoce del movimento armato dei talebani del Pakistan (Tehrik-i-Taliban Pakistan), annunciava la lieta novella della sua fuga dalla «prigione» pakistana in cui si trovava da circa tre anni, e prometteva ulteriori dettagli il giorno seguente. «Prigione» perché, come si è saputo fin da subito e come i soliti ben informati sapevano da tempo, il responsabile dell’attentato ai danni di Malala Yousafzai, a cui è stato in seguito attribuito il premio Nobel per la pace, e dell’eccidio di centotrenta bambini in una scuola per figli di militari di Peshawar, non si trovava in prigione ma in una cosiddetta «safe house», una casa protetta gestita dai servizi segreti e dai militari. In compagnia di moglie e figli, compreso l’ultimo nato mentre Ehsanullah era già in galera.
La signora e i bambini avevano a quanto pare abbandonato la prigione alcuni giorni prima, ufficialmente per recarsi in visita dai parenti. La notizia della fuga di Ehsan, secondo l’analista Faran Jeffrey, è stata data da un account Facebook creato nel 2016, e l’account risulta essere stato attivo durante tutto il tempo della permanenza di Ehsanullah in galera. La notizia, che non è ancora stata commentata ufficialmente dall’esercito o dal governo pakistano, ha suscitato nel Paese un’ondata di indignazione. Sembra chiaro, difatti, che la cosiddetta «fuga» di Ehsanullah non è stata affatto una fuga.
Il «buon» terrorista ha difatti comunicato che si trova in Turchia, e che ha deciso di abbandonare il Pakistan quando si è reso conto che, dopo tre anni, i militari non rispettavano gli accordi presi. Accordi che prevedevano a quanto pare il pagamento di una consistente somma di denaro all’ex-talebano in cambio di informazioni ma non solo. Ehsanullah Ehsan è stato difatti indotto a dichiarare dinanzi alle telecamere che il TTP è finanziato dalla RAW, l’intelligence militare indiana, ed è stato adoperato dall’esercito pakistano come teste-chiave nel processo contro la presunta spia indiana Kulbushan Yadav, in prigione a Islamabad. Si tratta quindi di «un assetto strategico di particolare importanza» per l’intelligence pakistana, come ha dichiarato in TV un colonnello in pensione dell’esercito.
Specialmente in un momento in cui, come denunciano da mesi gli abitanti della regione del Waziristan, i talebani sono stati reinsediati dall’esercito nelle loro vecchie aree di controllo nelle regioni di confine e hanno perfino pubblicamente manifestato in piazza, lo scorso 5 febbraio, in solidarietà con il Kashmir su invito del premier Imran Khan. L’esercito e i servizi segreti non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai loro «assetti strategici», dicono nella zona, e soprattutto a usare tutto il loro potere per costringere gli americani a ritirarsi con un accordo-farsa che lasci il Pakistan, ancora una volta, in controllo dell’Afghanistan. A farne le spese sono gli abitanti delle regioni di confine, i pashtun, che ormai da un anno portano in piazza migliaia di persone per chiedere che vengano rispettati i loro diritti costituzionali e che vengono invece arrestati per «sedizione» e tradimento, come è successo ultimamente al loro leader Manzoor Pashteen, o che, semplicemente, spariscono nel nulla.
Mentre Ehsanullah arrivava in Turchia con tanto di regolare passaporto, difatti, e mentre il fiancheggiatore e addestratore di terroristi Maulana Abdul Aziz occupava la Moschea Rossa di Islamabad ottenendo poi un vantaggioso accordo con l’amministrazione cittadina per il possesso di un pezzo di terra, il governo emetteva un mandato di cattura per la giornalista e attivista Gul Bukhari, accusata di terrorismo. Da quello stesso Stato, dicono i pakistani, che i terroristi non soltanto li lascia liberi ma gli fornisce anche denaro, case protette, passaporti, armi.
I parenti delle vittime della strage di Peshawar, centotrenta bambini massacrati da Ehsanullah e compagni, sono in piazza a chiedere giustizia e a chiedere che il governo faccia luce sull’accaduto. Ma sanno già che è inutile. Le loro proteste andranno a unirsi a quelle di tanti, di troppi, che nel «Nuovo» Pakistan di Imran Khan vedono ormai soltanto una ripetizione, sempre più buia, del vecchio Pakistan. Il Pakistan della dittatura militare, non dichiarata questa volta e perciò mille volte più insidiosa e più difficile sia da denunciare che da sconfiggere.