Reportage – Da mesi migliaia di persone, giovani, sono scese in piazza per manifestare contro le ingiustizie economico-sociali del governo, contro gli americani e contro l’Iran. Una protesta che ha superato le divisioni settarie
Per raggiungere l’ultimo piano del Turkish Restaurant, a Baghdad, bisogna salire a piedi quattordici piani di scale buie, facendo attenzione alle pareti diroccate di un palazzo che è stato per anni un punto di ritrovo commerciale della capitale irachena.
Danneggiato da una bomba, nel 2003, anno dell’invasione statunitense è stato evacuato e abbandonato. Da allora è stato poco più di una carcassa vuota, decine di metri di cemento a dominare piazza Tahrir e le vie limitrofe.
All’inizio di ottobre, il Turkish Restaurant è tornato a vivere, la sua vista panoramica che un tempo era un’attrazione turistica è stata per quattro mesi una prospettiva strategica sulla città per i manifestanti che l’hanno occupato e che, dal tetto, hanno monitorato le vie delle proteste, il fiume Tigri, e sulla sponda opposta la Green Zone, l’area super protetta di Baghdad, sede del Parlamento, dei ministeri e delle ambasciate. Nei primi giorni di scontri, le forze governative hanno usato il tetto del palazzo per posizionare cecchini a sparare sulla folla, e dopo giorni di scontri i manifestanti l’hanno occupato, trasformandolo in quartier generale.
Ad animare la torre non ci sono più famiglie e bambini come negli anni Ottanta, ma migliaia di giovani scesi in strada a chiedere un Paese più equo, libero dalla corruzione e dalle politiche settarie e clientelari, un Paese sollevato soprattutto dalla violenza delle milizie, dalle forze paramilitari che sostengono il governo.
L’edificio per un po’ ha cambiato volto, ha cambiato identità e cambiato nome.
Per quattro mesi, per tutti, è stato la «Stalingrado di Baghdad» o il «Monte Uhud di Piazza Tahrir», in riferimento a una montagna a nord di Medina, in Arabia Saudita, sede di una storica battaglia condotta dai primi musulmani nel 625 d.C.
Le forze musulmane persero la battaglia del Monte Uhud appena abbandonarono la propria roccaforte, e benché sembri una contraddizione aver assegnato questo nome al sito simbolo della nuova rivoluzione irachena, per chi la vive quel nome più che una suggestione alla lotta, è un monito alla resistenza.
«Lo chiamiamo Monte Uhud perché ci ricordi di essere vigili – dice Othman, venticinque anni, che per settimane è stato addetto alla sicurezza del sesto piano – dobbiamo cercare di mantenere le posizioni e non accontentarci delle misere concessioni del governo, non dobbiamo illuderci».
Lungo le scale malmesse della Stalingrado di Baghdad, hanno lottato e vissuto i volti della nuova rivoluzione irachena: ragazzi e ragazze, giovani e giovanissime che hanno reso questo edificio il simbolo dell’azione politica.
Ma anche i loro genitori, spinti alla piazza dall’urgenza di sostenere la generazione post-2003, perché la recente ondata di proteste in Iraq è soprattutto questo. Un movimento di giovani nati a cavallo (e cresciuti durante) i 17 anni che separano l’oggi dall’invasione statunitense iniziata per spodestare Saddam Hussein accusato di essere dotato di armi di distruzione di massa, appoggiare il terrorismo islamista, di appropriarsi delle ricchezze petrolifere e di opprimere i cittadini iracheni con una dittatura sanguinaria. Per tutti, il 2003 è l’anno spartiacque.
Umm Ahmed ha poco più di cinquant’anni, è una donna dal fisico robusto, mescola chili di riso in un’ampia pentola all’ultimo piano del palazzo, la chiamano «la regina dei pasti» perché prepara per tutti, ogni giorno, colazione, pranzo e cena. È la madre di Ahmed, ventunenne, ma dice di sé che si sente la madre di tutti, e considera ogni ragazza e ogni ragazzo figli suoi.
«Manifesto con mio figlio perché gli studenti, ma anche i lavoratori, sanno che per loro in questo Paese non c’è futuro – dice senza lasciare mai il suo mestolo in legno. Mio figlio torna a casa la sera e mi dice: Mamma, perché dovrei studiare, se so che non avrò lavoro se non piegandomi alle milizie e alla corruzione? Perché, da madre, devo rassegnarmi a questa ingiustizia e pensare che il Paese sia destinato a non cambiare? Viviamo sul petrolio e i nostri figli hanno vite miserabili. Condividiamo con loro un destino di ingiustizia e iniquità, per questo siamo qui».
Sulle facciate esterne per mesi i manifestanti hanno esposto un cartellone con le richieste della piazza: la fine di un sistema politico, quello istituito dopo l’invasione, che ha permesso alle élite di arricchirsi e ha consegnato la maggioranza della popolazione all’indigenza.
La contraddizione di un Paese ricchissimo, tra i primi produttori di petrolio nella lista dei paesi Opec, e contemporaneamente in cima alle classifiche mondiali della corruzione.
La settimana scorsa, dopo quattro mesi e numerose avvisaglie di una frattura interna al movimento, la piazza si è spaccata. Dopo la nomina di Mohammed Tawfiq Allawi a nuovo primo ministro, Muqtada al Sadr, religioso sciita, ha ritirato il suo sostegno alla piazza.
I suoi sostenitori noti come Blue Hats (Cappelli Blu) hanno conquistato il Turkish Restaurant, sostituendo i manifesti con le richieste apartitiche dei giovani di Tahrir con slogan antiamericani e pro Sadr. I membri del gruppo Blue Hats per giustificarsi, affermano di aver liberato l’edificio da tossicodipendenti e vandali, ma l’azione dei gruppi sadristi arriva alla fine di giorni in cui le forze governative hanno pesantemente represso le proteste rioccupando alcuni ponti chiave e spazi pubblici e liberandoli dalle tende e le cliniche da campo. I sadristi hanno voltato la faccia alla piazza, dicono i ragazzi di Tahrir, ma i manifestanti non vogliono arrendersi, affermano che i sostenitori di Mustada al Sadr sono inaffidabili e sono parte di quell’establishment corrotto che è precisamente la ragione che li ha spinti alla piazza e a contare centinaia di morti tra le loro fila: il desiderio di un Paese equo, della ricchezza distribuita per tutti.
La piazza vuole un nuovo premier, svincolato dalle dinamiche settarie, un iracheno per gli iracheni, libero dalle influenze di potenze straniere che combattono nel Paese una guerra per procura.
«Non assisteremo un’altra volta – spiegano in piazza – all’Iraq che diventa territorio di una guerra tra occupanti che hanno agende contrapposte».
Per questo i giovani di Tahrir gridano contemporaneamente «No alle ingerenze statunitensi» e «No all’Iran», slogan che si ripetono da ottobre e la cui eco continua, con rinnovata forza, dopo l’uccisione del generale iraniano Kassem Soleimani, ucciso da una bomba americana la notte tra il 2 e il 3 gennaio scorsi, sulla strada dell’aeroporto di Baghdad.
Soleimani era il capo delle forze al Quds, l’unità delle Guardie Rivoluzionarie responsabile di diffondere l’ideologia khomeinista fuori dai confini della repubblica islamica iraniana.
Era la vera politica estera di Khamenei, era soprattutto l’anima delle milizie per procura che ha gestito, organizzato, finanziato e diretto in tutta l’area per due decadi: in Libano, Siria e Iraq, naturalmente.
Proprio in Iraq, la milizia emanazione di Soleimani, katib Hezbollah – che oggi grida alla vendetta crudele contro gli Stati Uniti colpevoli di aver assassinato il leader carismatico – si è resa protagonista, con altre milizie sciite filoiraniane, delle dure azioni di repressione contro i manifestanti.
A oggi le vittime sono più di 500, la stima dei feriti arriva a 15 mila, secondo l’Alta Commissione indipendente per i diritti umani in Iraq.
La maggior parte dei manifestanti uccisi e feriti a Baghdad era composta da giovani nati alla fine degli anni Novanta, tanti venivano dalla baraccopoli di Sadr City, la zona più povera e disagiata della capitale.
Mentre cammina lungo le vie che circondano Tahrir, Abdul Hamdani, medico venticinquenne che in piazza si occupa delle cliniche mobili per stabilizzare i feriti degli scontri, mostra le fotografie degli amici uccisi a ottobre, «i martiri della rivoluzione» li chiamano già. Sono volti di ragazzini, poco più che adolescenti, giovani uomini, e giovani coppie: «Loro sono due medici – dice indicando una fotografia, in una cornice a forma di cuore – hanno protestato dal primo giorno, curato decine di feriti. Le milizie li hanno seguiti la prima sera che hanno fatto ritorno a casa per riposarsi dai turni nelle cliniche mobili. Li hanno aspettati sull’uscio e uccisi senza pietà. La loro colpa? Chiedere un Paese più giusto».
La fotografia accanto alla loro è di Ismail, aveva ventitré anni e guidava il tuktuk, uno dei simboli della povertà in Iraq, guidati dagli umili, spesso illegalmente. Ucciso alla fine di ottobre.
Ancora accanto Muntabar, quattordici anni. Il padre torna a Tahrir ogni giorno, porta un fiore, visitare gli amici del ragazzo e guarda la sua fotografia. Ha lasciato lì gli abiti di Muntabar, e i suoi amici hanno sistemato a terra una candela vicino alla cartuccia di gas lacrimogeno che l’ha colpito alla testa, uccidendolo.
«Queste strade per lui erano diventate una comunità», dice battendosi la mano sul petto. «Due giorni prima di morire mi aveva detto che avrebbe voluto lasciare la scuola. Diceva: “Papà non possiamo permetterci le medicine, come puoi permetterti di farmi studiare?”. Lui non era come i figli dei politici, lui era come tanti qui un figlio della strada».
Una piazza divisa dalla distribuzione della ricchezza, ma non dalle appartenenze settarie, muoiono sunniti e sciiti, quello che li accomuna è la povertà, è la sensazione di sentirsi privati delle opportunità.
«Il mondo ha più a cuore il nostro petrolio che le nostre sorti – dice Ali, un giovane venditore ambulante che porta sul busto i segni delle torture delle milizie sciite – vogliono le nostre ricchezze e guardano morire noi e i nostri fratelli. Ci guardino allora, non lasceremo la piazza e non siamo disposti ad accettare le influenze di nessuno, né americani, né ayatollah. Vogliamo una sola bandiera, la nostra, e acqua, elettricità, diritto di studiare e di avere un lavoro senza il ricatto delle milizie».
Una rivoluzione che non ha avuto inizio dalla chiamata di leader politici, né religiosi, ma dalla necessità che la richiesta di giustizia sociale venisse, finalmente, ascoltata.
La rivoluzione di una generazione, quella post 2003, che si sente trasparente per il potere ma che, forgiata sull’esperienza della guerra, non ha paura di sacrificare tempo, energie, la vita stessa per un nuovo Iraq, perché dicono tutti «morire non spaventa, se pensi di non aver mai davvero vissuto».