Come ai tempi di Stalin

by Claudia

Russia - Sette giovani messi a processo a Mosca, dopo essere stati torturati in carcere, con l’accusa di aver voluto scatenare una rivoluzione – Ma la società civile si ribella e scende in strada a protestare

Mosca non è più abituata alle code da decenni. E una coda davanti alla sede dei servizi segreti, l’Fsb, l’ex Kgb, non si era mai vista: in genere, i pedoni cercano di non avvicinarsi all’enorme edificio in piazza Lubjanka. Il 14 febbraio scorso però, la coda girava l’angolo: invece di festeggiare San Valentino, centinaia di persone si erano invece messe in fila alla sede dell’Fsb per piazzarsi a turno davanti con un manifesto un mano, in una serie di picchetti individuali, l’unica forma di manifestazione spontanea concessa dalla legge russa. C’erano attivisti, artisti, intellettuali, ma soprattutto giovani, che a turno esponevano per qualche minuto, in silenzio, un manifesto che diceva, con diverse variazioni: «No alle torture! Libertà ai ragazzi di Set’».
Mentre Vladimir Putin è impegnato nell’organizzazione del «voto plebiscitario», come lo chiama, per approvare la sua riforma costituzionale, la condanna ai sette ragazzi accusati di aver fondato l’organizzazione terroristica Set’ per uccidere il presidente e provocare la rivolta armata ha fatto esplodere una protesta che mostra come la Russia sia sempre meno compatta e unanime. Il caso di Set’ – che in russo vuol dire «Rete» – è iniziato come uno dei numerosi episodi di eccesso di zelo dell’Fsb, nella regione di Penza, 700 km a sud-est di Mosca, diventando un processo seguito a livello nazionale. Per l’assurdità dell’accusa – secondo l’Fsb, undici ragazzi dai 23 ai 31 anni stavano «pianificando di pianificare» (così recita l’atto d’accusa) una rivoluzione in Russia, con atti terroristici durante i Mondiali di calcio del 2018 e assalti ai magazzini militari e alle sedi del partito putiniano Russia Unita. Ma soprattutto perché, per la prima volta, nell’aula sono state esplicitamente denunciate – e ignorate dai giudici – le torture sistematiche degli imputati.
L’indagine sulla «Rete» ha toni kafkiani che fanno apparire i famigerati processi ai nemici di Stalin un modello di giurisprudenza. Gli imputati non si conoscevano nemmeno tra loro (tranne due, che però non si frequentavano). Gli inquirenti non hanno prodotto alcuna prova delle loro intenzioni, non un fatto avvenuto, non una vittima, non un’arma (tranne un fucile da caccia regolarmente registrato e un secchio di polvere di alluminio). Tutta l’accusa si basa sulle testimonianze di un altro imputato, che si è dichiarato colpevole e che una commissione indipendente di osservatori che l’ha visitato in carcere ha descritto pieno di segni di percosse e bruciature, e su una serie di testimoni segreti che avevano agito come provocatori su incarico dell’Fsb (e che sono, a quanto pare, legati ai circoli neonazi di Penza).
Il resto è una surreale collezione di «prove» indiziarie, come il fatto che alcuni imputati leggevano Marx e Kropotkin (i cui libri sono stati sequestrati e distrutti in quanto «strumento per commettere il reato»). L’accusa ha insistito molto sul fatto che alcuni degli imputati giocavano a strikeball e organizzavano trekking nei boschi, un «modo illegale di imparare a sopravvivere e dare soccorso nella foresta». Le perizie indipendenti richieste dalla difesa hanno dimostrato manipolazioni con i computer degli imputati (con l’inserimento di improbabili «statuti» e «piani» dell’inesistente organizzazione terroristica), e sulla pistola «rinvenuta» in casa di uno dei ragazzi non ci sono neppure le sue impronte.
Per ovviare all’inconsistenza del-l’accusa, gli imputati sono stati sottoposti a torture. Dmitrij Pchelinzev, 27 anni, istruttore di tiro, condannato a 18 anni, ha raccontato di essere stato torturato con la corrente elettrica, mentre un agente gli schiacciava i genitali: «La sensazione era di venire scuoiato vivo. La bocca era piena di sangue, i denti si sbriciolavano per come li stringevo per il dolore». Lo hanno minacciato di stuprare sua moglie. Ha confessato tutto, per poi ritrattare in aula e denunciare le torture. La stessa cosa l’ha fatta Ilja Shakurskij, 23 anni, studente di fisica, condannato a 16 anni: «Mi hanno spogliato fino alle mutande, legato le mani, infilato un calzino in bocca. Hanno legato cavi elettrici ai miei alluci. Mi hanno attaccato alla corrente per cinque volte. Il dolore era talmente insopportabile che continuavo a cadere. Ho detto tutto quello che volevano». «Mi hanno attaccato i cavi ai pollici e hanno fatto la prova. Ho urlato: era come aveva raccontato Pchelinzev, mi sentivo scuoiato», ha denunciato Arman Sagynbaev, studente di musica, 27 anni, condannato a 6 anni. Anche i testimoni d’accusa hanno ritrattato in aula la loro deposizione, denunciando percosse e minacce.
Le torture della polizia e dei servizi sono una prassi comune in Russia, come denunciato da diversi organismi internazionali. Ma mai prima del caso della «Rete» le torture erano state denunciate così esplicitamente e dettagliatamente nell’aula di un tribunale. Senza nessuna conseguenza. Dal 2008 i casi di terrorismo sono stati tolti alle giurie popolari, e i giudici non sfidano mai i servizi segreti. La verifica ordinata dalla magistratura ha stabilito che le scottature lasciate dai cavi elettrici sui detenuti erano «punture di cimici», e l’interrogazione sulle torture portata dai membri del Consiglio per i diritti umani presso la presidenza al Cremlino è rimasta senza risposta.
Un caso che avrebbe dovuto sgretolarsi in tribunale, e che si è concluso con condanne pesantissime. Altri due imputati sono in attesa di giudizio a Pietroburgo. E la Russia ha nuovi eroi: Pchelinzev, Shakurskij, Vasilij Kuksov, che si presenta in aula con la mascherina perché in prigione ha contratto la tubercolosi in forma acuta. Sfoggiano cicatrici, sorridono mostrando i denti rotti, scrivono poesie. Per loro si fanno raccolte fondi, manifestazioni e lettere aperte (l’ultima ha raccolto quasi 70 mila firme in pochi giorni). Per loro chiudono le librerie indipendenti, in un giorno di sciopero per protesta contro il «reato di lettura». Per loro si cantano canzoni: quella del gruppo punk Pornofilmy, «Tutto questo passerà», che racconta «gli onesti ragazzi con la busta bagnata sulla testa e i cavi elettrici sulle mani, la mia Russia è in galera», è ormai un inno che si sente anche per strada. Perché questi bravi ragazzi di provincia sono l’altra Russia, non quella mostrata degli attori, sportivi, deputati, sacerdoti e cosmonauti che in TV lodano la nuova Costituzione putiniana, ancora non scritta ma già di fatto approvata (il «plebiscito» voluto dal presidente avverrà soltanto dopo l’entrata in vigore).
Oltre a un processo assurdo, i ragazzi della «Rete» hanno un’altra cosa in comune: erano tutti attivisti. Vegetariani e ambientalisti, organizzavano raccolte di indumenti per i senza tetto, mercatini di beneficenza per i poveri, facevano volontariato nei canili e campagne contro l’inquinamento dei fiumi. Non militavano in nessun partito, vagamente anarchici o genericamente di sinistra, e tutti convinti antifascisti, quella nuova e inedita generazione di russi per la quale l’impegno individuale è un diritto e una libertà. I dissidenti russi 2.0 non sfidano il regime, ma già il fatto che avevano osato organizzare o partecipare a iniziative alternative a quelle delle autorità li rende «nemici», come gridavano a loro gli agenti dell’Fsb che li torturavano. In TV si discute di rendere norme costituzionali il matrimonio solo tra uomo e donna, la supremazia della cultura russa e lo status di potenza nucleare. Sui social, l’hashtag #siamotuttiinRete è tra i più seguiti, e i moscoviti si mettono in coda per protestare davanti alla Lubjanka.