Grandi epidemie hanno ripetutamente colpito il mondo fin dai tempi più antichi, da sempre hanno diffuso morte, terrore, panico, senso di frustrazione e d’impotenza. Spesso hanno influito pesantemente sulla demografia spopolando vasti territori. Anche se la cooperazione sanitaria internazionale potrebbe e dovrebbe essere meglio coordinata, oggi siamo bene attrezzati per affrontare un’epidemia come l’attuale. Ma il vantaggio offerto dai progressi della medicina è parzialmente neutralizzato dal fatto che rispetto al passato la diffusione del contagio è infinitamente più rapida. Nel mondo globalizzato dalle frontiere aperte e dai trasporti veloci è difficile circoscrivere l’epidemia, che dunque allargandosi all’intera terra abitata tende a connotarsi come pandemia. Nel caso che domina le cronache di questi giorni ha complicato l’approccio il tentativo iniziale, da parte delle autorità cinesi non proprio inclini alla trasparenza, di tenere nascosto il fenomeno. E così questa emergenza, mentre si ripercuote negativamente sulle attività produttive e sugli scambi commerciali, dunque sulle economie strettamente correlate della nostra epoca, suscita inquietudini e paure tipiche di tempi lontani.
In questa parte di mondo influenzata dalle scritture bibliche, proprio nel Libro si radica il mito della pestilenza fatale e devastante. Uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse monta un cavallo verdastro, un colore indefinibile che allude al pallore della malattia e richiama la sua funzione: mentre gli altri cavalieri impersonano la conquista, la violenza e la carestia, questo impugna l’arma letale della pestilenza. È il mezzo con cui contribuisce all’azione devastante assegnata a queste terrorizzanti figure simboliche: spargere la morte su larga scala, infliggere il grande castigo divino a un’umanità corrotta, deviata, satanica. Su questa visione, oltre che sull’oggettiva sostanza dei fenomeni, si fonda storicamente il timor panico per le grandi epidemie, del resto comune a tutte le culture. È comune anche l’interesse letterario per questi sconvolgimenti periodici, l’epidemia come nemesi, come flagello mortale che si abbatte sugli uomini, incontrollato e incontrollabile.
Il quarto cavaliere dell’Apocalisse procede accanto al secondo, quello che semina la violenza della guerra. Infatti le truppe in movimento spesso veicolano il morbo. «Per tutta… la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Sono le parole con cui Alessandro Manzoni, nei Promessi Sposi, introduce il tremendo flagello della peste bubbonica che fra il 1630 e il ’31 imperversò nell’Italia settentrionale uccidendo più di un quarto della popolazione. Manzoni si sofferma su Milano, dove morirono 64mila abitanti su 250mila. Si era nel pieno della guerra dei trent’anni che nel suo capitolo italiano, la guerra del Monferrato, vide calare dalla Germania le truppe imperiali al comando di Albrecht von Wallenstein. Furono proprio loro, in particolare le bande mercenarie dei Landsknechte, a portare il contagio.
In un’attenta ricostruzione basata su fonti contemporanee, Manzoni ci parla degli untori, che essendo sopravvissuti al morbo diventandone immuni lo diffondevano a scopo di rapina facendo razzie nelle case delle vittime più facoltose. Ci parla dei monatti, che protetti dalla stessa immunità vera o presunta, e spesso animati da un’analoga motivazione predatoria, sgombravano la città dai cadaveri che prelevavano per strada e nelle case. Ci racconta che all’inizio la gente non voleva credere a quel disastro, chiudeva gli occhi e preferiva illudersi, tanto che le autorità sanitarie ricorsero a un drammatico espediente. «Era… morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono… condotti al cimitero… sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza…» Cioè i bubboni purulenti, il sintomo più appariscente. Finalmente i milanesi, inorriditi da quello spettacolo, si persuasero che la faccenda era seria. E del resto la mortalità raggiunse presto livelli che non lasciavano adito a dubbi.
La letteratura europea registra altri incontri con la pestilenza. Fra i più celebri quello di Giovanni Boccaccio che individuò proprio nella peste nera, la cruenta epidemia che fra il 1348 e il ’49 distrusse un terzo della popolazione europea uccidendo almeno venti milioni di persone, l’occasione per cercare un antidoto esistenziale alla morte e alle avversità. La cupa tragedia sconvolgeva Firenze, dove non soltanto la gente moriva ma si dissolveva ogni vincolo familiare e morale: «era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e… i padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero…» Di fronte a questa realtà Boccaccio immaginò che una brigata di giovani, tre uomini e sette donne, si riunisse in un luogo idilliaco, a distanza di sicurezza dalla città contaminata, e sconfiggesse la paura con canti e balli, e soprattutto raccontandosi a turno le novelle del Decameron, ricche di umorismo e sensualità. Intendeva esaltare la forza vitale che attraverso l’esuberanza giovanile ha ragione del male.
Altra pestilenza celebrata dalla letteratura quella inglese del 1665-66, la Great Plague culminata proprio nell’anno micidiale che vide Londra, nel settembre, rasa al suolo dal Great Fire, un incendio che distrusse l’ottanta per cento della città propagandosi rapidamente a causa del legname, che fino ad allora era stato il materiale prevalente di costruzione. Per limitare i contatti e dunque il contagio s’impose la chiusura di ogni luogo di riunione a cominciare dalle scuole. Come l’università di Cambridge, dove uno studente ventitreenne di nome Isaac Newton dovette come gli altri abbandonare le aule. Il giovane Newton si rifugiò nella casa di famiglia nel Lincolnshire e vi trascorse due anni al riparo dall’epidemia. Ma non stette certo con le mani in mano, anzi approfittò della forzata solitudine per concentrarsi sugli studi, e mentre l’Inghilterra si confrontava con quei catastrofici eventi portò avanti le sue ricerche scientifiche ponendo le basi dei Principia Mathematica.
Intanto a Londra proprio il fuoco, facendo strage dei ratti portatori delle pulci responsabili della peste, finalmente poneva termine all’epidemia che era durata un anno e mezzo. Ma non prima che nella metropoli fossero morte centomila persone, un quarto degli abitanti. Quel 1666 era davvero un anno particolare, e non soltanto perché aggiungeva un millennio al 666, il diabolico «numero della bestia», o perché nella formulazione romana, MDCLXVI, conteneva in ordine decrescente tutte le lettere che in latino designano i numeri. Lo era soprattutto perché quell’anno la vecchia Inghilterra seppe sopravvivere a una serie impressionante di sfide: il fuoco, la peste, la seconda delle guerre anglo-olandesi per il controllo dei commerci marittimi. Tanto che John Dryden poté intitolare Annus Mirabilis l’opera in versi con cui raccontò quelle vicende. Lo fece con accenti appassionati che ancora oggi colpiscono profondamente, come la straziante immagine di quel neonato che nella città devastata cerca il seno della madre esausta ma non trova il latte, mentre una lacrima cade su di lui: An infant waking to the paps would press / and meets, instead of milk, a falling tear.
Un mare di lacrime fece versare molto più di recente una tremenda epidemia, anzi pandemia perché coinvolse il mondo intero, forse la più cruenta della storia, l’influenza spagnola che imperversò fra il 1918 e il ’20. Nacque negli ultimi mesi di guerra in un sovraffollato ospedale militare in Francia dal quale si diffuse rapidamente in Europa e altrove. Nella fase iniziale la stampa dei paesi belligeranti, sottoposta a censura, ignorò o quasi l’evento alterando la percezione del fenomeno e compromettendo l’efficacia delle contromisure. Soltanto nella Spagna neutrale i giornali ne parlarono fin dall’inizio, per questo fu battezzata spagnola. Arrivò a colpire in tutti i continenti mezzo miliardo di persone, con una mortalità non molto inferiore al dieci per cento. Decine di milioni di vittime dunque, proprio all’indomani della grande guerra che aveva infierito sulle popolazioni di tanti paesi. È passato un secolo e altre epidemie più o meno gravi si sono succedute, fino a quella di questi giorni che in una nuova forma risveglia una paura antica.