Il 4 febbraio scorso Pascale Marthine Tayou, uno degli artisti africani più celebri e rappresentativi del contesto contemporaneo, è stato invitato a tenere una conferenza a Lugano dall’associazione «Nel – Fare arte nel nostro tempo».
Tayou è nato a Yaoundé, in Camerun, nel 1967. Inizia a frequentare la facoltà di diritto, grazie al sostegno dei genitori. Ma di lì a poco sceglie di abbandonare gli studi per intraprendere un percorso professionale molto diverso. Non vuole in nessun modo essere definito artista, eppure raggiunge come autodidatta l’affermazione a livello internazionale nei primi anni Duemila. Lo conferma la sua partecipazione a Documenta 11, invitato e fortemente sostenuto dal curatore Okwui Enwezor. Oggi è presente nelle più importanti collezioni pubbliche e private. Vive in Belgio, ma mantiene un vivo legame con l’Africa: affronta le proprie radici senza mai indulgere negli stereotipi, anzi, combattendoli attivamente, tramite il capovolgimento delle consuete convinzioni.
Di seguito, proponiamo l’intervista che ha concesso ad «Azione», al termine della quale, sovvertendo il normale protocollo, è stato lui a ringraziare per le domande che gli sono state poste e per il tempo che gli è stato dedicato.
Vorrei cominciare chiedendole come mai ha interrotto i suoi studi in legge, che pure avevano richiesto un grande sforzo economico alla sua famiglia.
Ho studiato diritto per alcuni anni, senza diventare un giurista. Certamente la ragione per cui ho deciso in maniera molto brusca di smettere di studiare legge è perché mi sono accorto che il diritto non era per niente giusto. Facevo fatica a sopportare la distanza dei miei professori da quello che supponevano di insegnarci e non volevo accogliere gli insegnamenti di docenti maldestri. (Nella traduzione italiana risulta difficile rendere il gioco di parole utilizzato in francese fra droit, «legge», e maladroit, «maldestro», ndr)
A quel punto che strada ha deciso di intraprendere?
Allora ho deciso di essere un ragazzo normale. Credo che la normalità sia non fare cose sbagliate. Di fatto avevo l’impressione che far parte della nostra società così com’è, accettandola senza discussioni, significasse indossare una maschera. Mi sembrava anche che, se avessi indossato una maschera, avrei messo in pericolo coloro che mi amavano o che mi stavano attorno. Non potevo sopportare quest’idea. Per questo motivo ho deciso di levarmi ogni maschera.
So che non ama essere definito artista, ma questa nuova via professionale le ha dato modo di sentirsi più a suo agio con sé stesso e con gli altri?
L’intenzione non è quella di essere un artista. Non so esattamente cos’è un artista. L’intenzione è quella di essere un uomo, di essere onesto. Cerco di fare ciò che credo sia corretto. Mi dico che forse sia più interessante essere un buon essere umano, il meno ipocrita possibile, piuttosto che un artista.
Spesso cita la «naïveté» come un elemento importante del suo metodo. Può raccontarci qualcosa a questo proposito?
Prendere la «naïveté» alla radice vuol dire essere alla ricerca di una certa sincerità e giustizia. Ho l’impressione che essere sinceri sia rifiutare di essere giudicato un ipocrita, anche se ciò può dare l’impressione di essere ingenuo nella società in cui viviamo. Ci dicono che bisogna essere furbi e trovare una formula per ottenere il potere, dando l’impressione di essere ingenui. Io preferisco essere profondamente ingenuo. Tutti, invece, vogliono apparire più intelligenti. Una classica frase è: «Ma che cosa ci si può aspettare da una persona così ingenua?».
Sembra che sia più interessante essere furbi e intelligenti. Per conto mio, mi spiace, ma sono fatto così: sono naïf. Perciò, la mia arte prendetela così com’è.
Il colore è un elemento importante del suo lavoro. Che uso ne fa nelle sue opere?
Dicono che ci siano colori freddi e colori caldi. Io personalmente preferisco i colori primari, «brut», al limite del kitsch. In definitiva, cerco di depurarli. Cerco di ritrovare la materia prima, la componente originaria delle cose. Lavoro tramite il metodo della manipolazione e i colori sono il mezzo tramite il quale cerco di esprimere il mio stato d’animo. Ritornando al tema dell’ingenuità, i miei colori sembrano molto semplici. Ma in fondo non penso di essere così ingenuo come si dice. Si tratta piuttosto di un modo per resistere un po’, ecco.
Ha appena citato il concetto di manipolazione. Questo coinvolge anche i materiali che utilizza, quasi sempre recuperati e riciclati da utilizzi precedenti.
Riciclaggio è una grande parola. Quando si parla di riciclaggio, la mia impressione è che ci si riferisca solo all’utilità pratica degli oggetti. Parlare di riciclaggio è quasi moralizzante. Io sono convinto che tutto ciò che usiamo, qualsiasi medium artistico, sia solo uno strumento, un utensile che non porta con sé un contesto. Ho fatto delle scelte e ho scelto quali strumenti volevo usare.
Se vogliamo parlare di riciclaggio, possiamo parlare di riciclaggio mentale. Solitamente si pensa alla materia e all’oggetto che osserviamo. Ma io penso piuttosto a un riciclaggio di comportamenti, di attitudini, del nostro modo di metterci in relazione con le cose. L’oggetto non è altro che il riflesso di colui che lo guarda. Riflette il nostro sguardo, la nostra dimensione, il nostro atteggiamento. Colui che guarda può determinare un altro uso dell’oggetto. Quindi sono più per un riciclaggio mentale che per un riciclaggio degli oggetti.
Come si relaziona con i suoi colleghi, con gli altri artisti?
Non parlerei di colleghi, non sono in una corporazione. Non sono un impiegato. Non lavoro in un’impresa. Non ho frequentato una scuola che mi abbia permesso di costituire un mio gruppo di riferimento. Sono un camminatore solitario. Ho la fortuna di incontrare persone, persone come lei che mi sta intervistando. Quando faccio nuovi incontri, mi interessa sempre soffermarmi a capire la visione del mondo di chi mi sta davanti. Magari non la condivido, ma cerco sempre di rispettarla. Io non ho un mestiere. Non so esattamente cosa sono. Sono un disoccupato. Cerco di fare qualcosa, ma non so se sia un granché. Sono solo un camminatore che cammina.
Durante l’incontro di Lugano ha parlato del tentativo di coniugare saggezza, intesa come frutto della ragione, e «magia», intesa come sapere ancestrale che proviene dalla tradizione. Questo significa far convivere Europa ed Africa?
Da quel poco di esperienza che ho, mi sono fatto l’impressione che la ragione, nel senso occidentale, affondi le sue radici in una metodologia cartesiana. Significa che le cose possono arrivare in modo spontaneo, ma dobbiamo spiegarle con una certa logica. Vanno inserite nella cornice della ragione, della razionalità. Sono arrivato a questa conclusione da dove son partito, cioè dalle mie radici africane. Lì c’è una concezione ben diversa della saggezza. Quindi, nei due territori ci sono versioni differenti. Ma quello che unisce le due concezioni, indipendentemente dall’origine del buonsenso o della saggezza, è che si deve riflettere. Ecco quello che mi interessa.Se le persone riflettono, a est o a ovest, si può fare del bene. Saggezza e magia possono coesistere. Nel quotidiano possiamo servirci di entrambe le cose e apprezzarle in egual misura.Ma, in definitiva, la saggezza, la ragione, il sapere devono contribuire a costruire un uomo felice.