Biden, rimonta spettacolare

È la settimana che ha rivoluzionato tutta la corsa verso la Casa Bianca. È risorto Joe Biden, si sono ritirati tutti gli altri candidati alla nomination democratica: nell’ordine Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Mike Bloomberg nel campo moderato, Elizabeth Warren in quello della sinistra radicale. Sicché la gara diventa a due, fra Biden e Bernie Sanders, con un vantaggio per il primo in termini di delegati. Novità anche sul fronte opposto, perché l’avanzata del coronavirus in America fa gravare l’ombra di una recessione che diminuirebbe le chance di rielezione per Donald Trump.
Bernie Sanders arriva primo in California, conquista lo Stato più grosso e più ricco (di Pil oltre che di delegati), può cantare vittoria in tutto l’Ovest degli Stati Uniti dove arriva primo anche in Oregon e Utah. Però l’ex vicepresidente Joe Biden risorge dalle ceneri, è protagonista di una rimonta spettacolare: a sorpresa porta via la totalità del Sud incluso il Texas, strappa il Massachusetts alla senatrice locale Elizabeth Warren, conquista il Minnesota, si dimostra competitivo ovunque. L’ex numero due di Barack Obama era dato per spacciato fino a due settimane fa, ora che si sono ritirati dalla corsa per la nomination Buttigieg Klobuchar e Bloomberg convergono su di lui i voti dei moderati. E questi sono, sulla carta, la maggioranza del partito democratico.
La gara per essere candidato contro Donald Trump a novembre si sta riducendo a due, Sanders e Biden. Con Mike Bloomberg che promette di mettere i suoi (tanti) miliardi al servizio di Biden. Le lezioni di questo Supermartedì faranno discutere a lungo, la prima è questa: l’establishment esiste e sa vendere cara la sua pelle. Lo si è visto nella veloce ritirata di Buttigieg e della Klobuchar, nel loro disciplinato endorsement a favore di Biden. C’è stata la capacità da parte dei vertici del partito democratico di chiudere una fase di eccessiva dispersione delle candidature, di compattare il fronte centrista. Il serrate i ranghi è arrivato perché il partito è convinto di rischiare grosso: la maggior parte dei dirigenti pensano che una candidatura di Sanders, troppo radicale, garantirebbe un secondo mandato a Trump.
Che l’establishment esista, Sanders lo ha sempre detto, bisogna dargliene atto. Lui attribuisce l’ostilità di questa élite dirigente a una congiura dei miliardari per tenere in vita il capitalismo com’è. Dovrebbe ammettere un’altra possibilità: i vertici del partito democratico pensano che un programma di governo socialista (supertasse sui ricchi, sanità pubblica per tutti, università gratuita, all’estero simpatia verso l’Iran e Cuba) verrebbe respinto dalla maggioranza degli elettori. Del resto Sanders non è mai stato democratico, è un outsider che per la seconda volta in quattro anni tenta un’Opa ostile per conquistare dall’esterno il partito. Non può stupirsi se la sua offensiva «rivoluzionaria» viene accolta da resistenze forti.
Biden ha dimostrato di avere con sé non solo l’establishment ma anche una quota importante della base. Non si vince senza il Sud moderato che ha espresso presidenti come Jimmy Carter e Bill Clinton. Il Texas è un trofeo importante e inaspettato per Biden. Al 77enne ex-vice di Obama gli elettori che lo hanno scelto sanno perdonare tante cose: le gaffe, la smemoratezza, l’invecchiamento, le disastrose performance nei dibattiti televisivi. Molti democratici lo considerano malgrado tutto un politico affidabile, onesto, di buon senso.
Se Sanders promette una rivoluzione politica, vuole rifondare l’economia e la società, Biden si accontenta d’incarnare un ritorno al passato riformista, e alla normalità. Chi lo vota vuole chiudere in fretta la parentesi Trump e affidarsi a un collaudato professionista della politica per riportare un po’ di civiltà, moderazione, buona educazione. Che rispetto al trumpismo è, in un certo senso, una rivoluzione: il ritorno allo status quo ante, la cancellazione del populismo, la riabilitazione delle competenze e delle tecnocrazie.
Un pericolo viene segnalato da una domanda rivolta negli exit poll. Ai democratici che hanno partecipato alla primaria del Supermartedì è stato chiesto: il 3 novembre votereste l’altro candidato, se fosse lui ad avere la nomination democratica? Il 15% degli elettori di Sanders risponde di no, si rifiuterebbe di votare per Biden contro Trump. L’11% degli elettori di Biden dice la stessa cosa nello scenario opposto. Queste percentuali vanno prese con beneficio d’inventario perché non tengono conto del clima arroventato e della polarizzazione estrema che si verificherà nello scontro finale. Però il 2016 insegna che i travasi da Sanders a Trump ci furono davvero. La sinistra americana non è mai stata disciplinata quanto la destra. Non è un caso se quest’ultima riesce a vincere pur essendo minoritaria.
Se Biden dopo la sua spettacolare rimonta sarà in grado di conquistare la nomination democratica, e in seguito magari di battere Donald Trump, ricordiamoci di chiamarlo col suo vero nome: Obama III. La fortuna politica di questo 77enne si spiega così: una parte della base democratica sostiene il suo ex vicepresidente perché ha nostalgia di Barack Obama, vuole una «restaurazione» della sua presidenza. E lo avrebbe votato per un terzo mandato nel novembre 2016, se la Costituzione non lo vietasse. Il Supermartedì con la resurrezione politica di Biden porta le impronte di Obama per tante ragioni.
L’ex vicepresidente era partito male nelle primarie dell’Iowa e New Hampshire. Mostrava più della sua età, sembrava più anziano di Bernie Sanders che ha 78 anni. Scarseggiavano i fondi dei donatori privati, al punto che diversi analisti già scommettevano su un ritiro precoce di Biden. Invece a ritirarsi sono stati gli altri. In particolare due defezioni dell’ultima ora, quelle di Pete Buttigieg e Amy Klobuchar, hanno colpito: per la tempistica alla vigilia del Supermartedì, per il perfetto coordinamento, per la disciplina con cui immediatamente i due hanno espresso un endorsement a favore di Biden. Lo stesso aveva fatto un altro ex candidato, Beto O’Rourke, molto popolare nel Texas. Senza l’appoggio compatto di quei tre è difficile immaginare che Biden avrebbe inanellato una serie di successi così importanti come quelli di martedì 3 marzo.
Una manovra pro-Biden così ben orchestrata chiama in causa il ruolo del partito. E poiché nella tradizione americana non esistono capi partito come in Europa, il leader morale più importante che ci sia è un ex presidente. Obama finora non ha dato il suo endorsement a Biden, però ha fatto qualcosa di più. L’ex presidente ha espresso più volte, in pubblico e in privato, la sua preoccupazione per l’ascesa di Bernie Sanders e più in generale per la radicalizzazione di una parte della sinistra. Obama è convinto che le proposte più estreme di Sanders o della sua giovane sostenitrice Alexandria Ocasio-Cortez – per esempio l’abolizione della polizia di frontiera, la depenalizzazione dell’immigrazione clandestina, l’estensione del Welfare e della sanità pubblica agli stranieri senza documenti – porterebbero a una rielezione di Donald Trump.
Sulla sanità, l’idea di nazionalizzare l’intera assistenza medica passando a un sistema di tipo europeo, è perfettamente razionale ma Obama la scartò nel 2008 perché ritenne che non avrebbe avuto la maggioranza al Congresso e nel Paese. Perciò, quando oggi ascolta i comizi di Sanders e i duri attacchi al sistema sanitario, Obama ha l’impressione che il senatore socialista del Vermont stia facendo campagna contro di lui (e la sua parziale riforma sanitaria), non contro Trump. In generale tutto ciò che Sanders va dicendo contro il capitalismo americano, contro l’establishment democratico, contro i poteri forti che vogliono sbarrargli la strada, a Obama suona come una critica del riformismo moderato più che di Trump.
Anzi all’ex presidente, Sanders e Trump sembrano due facce della stessa medaglia: un populista di sinistra contro un populista di destra. Un Jeremy Corbyn contro un Boris Johnson. E si sa chi vince alla fine, se la Gran Bretagna è un test significativo (lo fu nel 2016, quando la vittoria di Brexit precedette di pochi mesi l’elezione del turbo-sovranista alla Casa Bianca). Obama si è detto preoccupato anche per le nuove forme di intolleranza «politically correct» che si manifestano tra i Bernie Boys (and Girls), la caccia alle streghe, i metodi da Santa Inquisizione di estrema sinistra (via social media) per demonizzare chiunque non mostri una purezza ideologica esemplare.
Obama ha un grande capitale politico da spendere perché finì il suo secondo mandato con un livello di popolarità elevato. Una parte di quel capitale è già andato in eredità a Biden: il forte consenso di cui gode Joe tra i neri è legato al fatto di aver lavorato per otto anni come il numero due del presidente afroamericano. Nei confronti di Biden, l’ex presidente ha anche una punta di rimpianto. Fu Obama a implorare Biden perché non si presentasse nel 2016, per non ostacolare Hillary Clinton. Quello potrebbe essere stato un errore fatale. Forse il vecchio Joe per la sua storia personale e le sue origini avrebbe saputo arginare l’emorragia di voti operai nel Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, decisivi per la vittoria di Trump.
Quest’ultimo proprio alla vigilia del Supermartedì ha incassato la riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Una mossa robusta – ben mezzo punto – e decisa in anticipo sul calendario previsto, proprio come accadeva dopo la crisi del 2008. I mercati però non si sono lasciati incantare. La natura della frenata economica da coronavirus non si presta alle tradizionali cure monetarie. Perciò Trump è arrivato a proporre l’estensione di un’assistenza medica a carico dello Stato: una proposta tipica del partito democratico. Questo la dice lunga sulla preoccupazione del presidente, che l’epidemia e le sue conseguenze economiche diventino l’evento dominante da qui all’elezione di novembre.

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