I fatti, prima di tutto. Lo scorso 29 febbraio, il governo degli Stati Uniti, per mano dell’inviato speciale Khalilzad, ha firmato due differenti trattati: uno a Kabul, con la Repubblica Islamica dell’Afghanistan (e cioè con il governo ufficiale del Paese); il secondo a Doha, in Qatar, con l’Emirato Islamico dell’Afghanistan: con i Taliban, cioè. Mettendo fine a quasi vent’anni di guerra e negoziando finalmente il tanto agognato accordo di pace. Tutti felici? Non proprio. Nemmeno un consistente numero di alti dignitari di Washington, a cominciare dal Segretario di Stato Mike Pompeo che, come aveva in precedenza annunciato, pur essendo presente non ha materialmente firmato l’accordo.
Perché, più che di accordo di pace, si tratta anzitutto di una ritirata con appena un velo di frasi diplomatiche e di circostanza a nasconderne la sostanza. E i Taliban, difatti, subito dopo, si sono affrettati a cantare vittoria, a festeggiare in molte piazze afghane e pakistane in compagnia dei jihadi loro alleati come la Jaish-e-Mohammed e a emettere trionfali comunicati stampa che annunciano «la fine dell’occupazione straniera».
I Taliban hanno praticamente dettato le condizioni: ritiro delle truppe americane, con esclusione di 8600 soldati che rimarranno in Afghanistan, entro il 15 luglio. Entro la stessa data, gli americani dovranno abbandonare cinque basi militari. Il ritiro di tutte le truppe, americane e alleate, dovrà essere completato entro aprile 2021. Gli Stati Uniti si sono impegnati, per conto del governo afghano, a rilasciare cinquemila prigionieri Taliban: mille entro il 10 marzo, il resto in tre mesi. Gli Stati Uniti si impegnano a far cancellare le sanzioni delle Nazioni Unite contro i Taliban il 29 maggio e a cancellare le sanzioni imposte da Washington entro la fine di agosto.
In cambio, Mullah Baradar e i suoi si impegnano a rilasciare un migliaio di prigionieri in mano loro e a «non permettere che il suolo afghano venga adoperato per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati». Si impegnano anche a non espellere gli elementi che potrebbero minacciare la sicurezza degli Usa e a «mandare un messaggio chiaro» ai loro combattenti e ai loro alleati perché vengano «istruiti» a non collaborare con chi potrebbe minacciare la sicurezza dei suddetti Stati Uniti.
I Taliban si impegnano quindi a mantenere in Afghanistan la pletora assortita di jihadi che in questo momento combatte nel Paese e a non «rilasciare documenti di viaggio» ai suddetti. Al Qaida non è chiaramente menzionata, così come non è menzionata l’Isis. Così, gli Usa riconoscono implicitamente il cosiddetto «governo» dei Taliban come entità politica, pur se negli accordi ripetono più volte il contrario. I Taliban si impegnano inoltre a cominciare entro il 10 marzo le negoziazioni con l’attuale governo afghano, contestato da molti, guidato dal presidente Ghani. L’accordo è stato firmato senza dichiarare nemmeno un cessate il fuoco ufficiale, e senza garanzie reali. I Taliban hanno annunciato il cessate il fuoco in occasione della firma del contratto e, a partire dal giorno dopo, hanno ricominciato in grande stile a combattere. Nella sola giornata di martedì ci sono stati 41 attacchi, tanto che gli americani sono stati costretti, «per difendere l’esercito afghano» a bombardare postazioni Taliban.
Gli ex «studenti di teologia» non riconoscono l’attuale governo, lo considerano figlio dell’occupazione e considerano i parlamentari tutti burattini dell’Occidente. Il loro scopo, mai nascosto, non è l’«unirsi al processo democratico» tanto caro al linguaggio ipocrita della diplomazia, ma instaurare, appunto, un Emirato di stampo integralista. Quello, tanto per rinfrescare la memoria a qualcuno, che lapidava adultere e omosessuali, tagliava le mani ai ladri e distruggeva i Buddha di Bamyan perché blasfemi. È ormai inutile discutere sull’opportunità di aver combattuto dal 2001 in poi una guerra che, nei discorsi e nelle giustificazioni raffazzonate e ipocrite di chi quella guerra ha voluto, era anche una «guerra di civiltà».
Il cerchio si chiude perfettamente come era iniziato, con i Taliban al potere, e tutti fanno finta di credere che nel frattempo le cose siano cambiate. Non lo sono. Basta sbirciare appena oltre confine, in Waziristan, dove i Taliban da mesi sono tornati a spadroneggiare con la benedizione dell’esercito pakistano. Che, in tutta questa storia, è uno dei vincitori assoluti. I capi Taliban sono tornati in Waziristan, dunque, e gli sono state regalate terre e zone di influenza. Non solo, sono stati messi a capo di cosiddette «Commissioni di Pace» volte a sanare i rapporti con i cittadini comuni che li odiano. Cito a caso: le Commissioni di Pace hanno ordinato di bruciare vivi cinque abitanti di un villaggio che si erano rifiutati di obbedire agli ordini.
Non solo: sono dappertutto comparsi manifesti che vietano le solite buone, vecchie cose a cui ci aveva abituato il regime dei Taliban: le donne non possono uscire da sole, agli uomini è vietato tagliarsi la barba, non si può ascoltare musica e via dicendo.
Intanto, sono già incominciati i primi problemi: il governo di Kabul, quello ufficiale, si rifiuta di liberare senza garanzie cinquemila Taliban, altri cinquemila individui pronti a combattere contro l’esercito ufficiale. E prontamente interviene il Pakistan, invitando Ghani a stare zitto e fare quello che è stato deciso per lui dagli americani e, ovviamente, dal Pakistan. Che di tutta questa storia ha tirato i fili da dietro le quinte. Arrestando prima e liberando poi al momento opportuno il mullah Baradar, proteggendo i membri delle rete Haqqani a cui gli Usa, tanto per sancire la disfatta anche morale, hanno permesso di scrivere un articolo sul «New York Times» a firma di Sirajuddin Haqqani.
Il Pakistan ha mosso le sue pedine in modo brillante, dosando sapientemente ricatto e blandizie. Invocando ufficialmente un processo di pace «condotto e capeggiato dagli afghani», dove gli unici afghani presi in considerazione sono evidentemente quelli membri di organizzazioni terroristiche, visto che al governo ufficiale, eletto dal popolo pur se tra polemiche e brogli, non è stato dato il diritto di decidere praticamente nulla. Dopo vent’anni di guerra, l’Afghanistan della cosiddetta pace diventa, di fatto, un paradiso per jihadi guidato da jihadi e controllato dalla mano lunga di altri jihadi. In Siria, non è un segreto per nessuno, combattono jihadi pakistani e afghani.
In Afghanistan, alle spalle del Pakistan ma nemmeno tanto, i cinesi cercano di stabilire il loro personale dominio mascherato da accordi commerciali ed economici. La Russia ha la sua agenda geopolitica, così come l’Iran e la Turchia che, per motivi diversi, stringono entrambe la mano al Pakistan. La «pax americana» rischia di costare cara, molto cara a tutto il mondo nei prossimi anni. Noi, l’Occidente, voltiamo le spalle a una polveriera che abbiamo creato e nutrito per anni. Una polveriera di fatto e una polveriera in senso geopolitico: il Grande Gioco ricomincia, con vecchi e nuovi giocatori, e sarà molto, molto più pericoloso del precedente.