Smarrito. Travolto nelle abitudini e nei rituali. Il popolo dello sport è impaurito, fragilizzato. Prima d’ora, soltanto le due Guerre Mondiali erano state capaci di paralizzarlo. Da un lato perché era piuttosto pericoloso assembrare migliaia di persone, negli stadi, o lungo le strade, ad ammirare baldi giovanotti che si sfidavano in braghe corte. D’altro canto, perché questi uomini, forti e coraggiosi, servivano per ben altri scopi alle rispettive patrie.
A 75 anni dalla conclusione del secondo evento bellico, ci sta riuscendo il Covid-19, altrimenti noto come Coronavirus. Non alludo alla Cina, dove gran parte delle attività sociali sono vietate da tempo, e dove, a quanto si legge (ma dubitare è lecito), si sta già mettendo in atto una controtendenza. Penso alla Svizzera, all’Italia, e all’Europa in genere. Questo virus partito da lontano, questo microrganismo di dimensioni inimmaginabili, sta mettendo a terra un fenomeno robusto, forte, ricco e «macho» come lo sport. Saltati i Play Off di hockey su ghiaccio. Bloccato il calcio nazionale. Quello internazionale si sta interrogando, nel caos e nell’incertezza, ma con le positività al virus, riscontrate ad alti livelli, la parola d’ordine è stop. Pure la pallacanestro, anche quella patinata della NBA ha optato per il letargo.
Stop anche per la Maratona Engadinese, che domenica 8 marzo avrebbe dovuto portare sulle piste tra Maloja e S-chanf, circa 14mila fondisti. Luce rossa anche per la Media Blenio, in cartellone il giorno di Pasquetta. Anche i motori, il tennis e lo sci nordico si interrogano. Lo sci alpino ha mandato tutti in ferie anzitempo. Le classifiche stagionali ne risulteranno falsate, ma questo è il minore dei mali. Sono usciti dal cartellone anche parecchi appuntamenti della stagione ciclistica, su tutti la Classicissima dei Fiori, l’attesissima Milano-Sanremo. In precedenza, l’Unione Ciclistica Internazionale aveva interrotto il Giro degli Emirati Arabi, e 4 squadre europee erano state tenute in quarantena ad Abu Dhabi. La Parigi-Nizza è partita fra mille paure, ma Giro e Tour sono a rischio.
Insomma. O non si gareggia, oppure, nella migliore delle ipotesi, lo si fa a porte chiuse. In passato non si era mai assistito a un fenomeno di tali dimensioni. Nel 2009, in Messico, l’influenza suina aveva costretto la disputa di alcune partite a spalti deserti. Altrimenti, in altre occasioni, ma mai in modo così devastante come lo sta inducendo il Coronavirus, solo un’altra malattia aveva costretto le autorità civili e sportive a chiudere i battenti degli stadi: il TIFO. Nel 2007, ad esempio, l’uccisione dell’ispettore Filippo Raciti durante gli scontri ai margini del derby tra Catania e Palermo, aveva spinto la Lega calcio a indire un turno completo di campionato a porte chiuse. Di singoli episodi analoghi, lo sport, soprattutto il calcio, ne ha vissuti altri, anche a livello internazionale.
Guerre e malattie hanno provocato problemi e danni allo sport. Malattie vere, sconosciute, preoccupanti, a rapida diffusione, come il Covid-19, oppure fenomeni patologici come il tifo da stadio. Per quest’ultimo ci sono state e ci saranno sempre delle vie d’uscita. Il mix adeguato di informazione, cultura, prevenzione e, se indispensabile, di dura repressione, possono limitare il fenomeno. In Inghilterra, patria dell’Hooliganismo, sono stati ottenuti ottimi risultati. Ma al dilagante diffondersi del Coronavirus, il mondo dello sport non può che assistere impotente, frustrato, costretto ad annullarsi, pur di garantirsi una ripresa in tempi ragionevoli. Ne La Peste di Albert Camus, il predicatore gesuita Paneloux rivolge un feroce sermone ai fedeli di Orano, città algerina in cui l’epidemia sta correndo velocemente. «Miei fratelli, siete caduti in disgrazia. Miei fratelli, l’avete meritata». Questo è l’incipit. Poi, attingendo ad alcuni episodi biblici, il sacerdote prosegue tuonando che, «privati della luce divina, eccoci catapultati a lungo nelle tenebre della peste». Sui social, in mezzo a folte schiere di allarmisti, minimalisti, virologi ed epidemiologi della domenica, cassandre e altro, ci sono anche loro, i moderni Paneloux, convinti che l’umanità, e di conseguenza anche il mondo dello sport, stia pagando il prezzo di reali o presunte malefatte.
Non mi schiero con questo fronte colpevolista, anche perché il virus è cieco, trasversale. Colpisce, sì, alcune categorie a rischio, come gli anziani, e coloro che sono già molto debilitati da altre patologie, ma non seleziona tra credenti e atei, fedeli e infedeli, svizzeri, italiani, cinesi o uzbeki. Lo stesso Peneloux urlava: «Vous êtes tous concernés», per poi scivolare più avanti in un più onesto «Nous sommes tous concernés». Non ci resta che attendere. Il virus sta modificando le nostre abitudini. Ci sta fragilizzando. Siamo smarriti di fronte al suo incalzare. L’auspicio è che possa indurci a riflettere su quanto siano effimeri potere, successo, gloria, e denaro. Il Covid-19, non sa chi siano Roger Federer e Cristiano Ronaldo, non sa chi siamo voi ed io. Con ruoli diversi siamo tutti attori di una pièce che in futuro potrebbe essere più divertente e salutare di quanto non sia stata finora.