L’Italia nell’ora più buia

Ci voleva il coronavirus per smorzare la rissa permanente fra le forze politiche italiane. Di fronte a una drammatica progressione dei contagi maggioranza e opposizione hanno momentaneamente deposto le armi mentre si cerca il modo di uscire dall’emergenza. Così è nato il decreto con cui il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha esteso all’intero territorio nazionale le misure di contenimento inizialmente limitate alle aree più colpite: la Lombardia e alcune altre province. Stesse limitazioni per tutti fino al 3 aprile, nella speranza che non si rendano necessarie proroghe di validità.
Poi Conte ha rincarato la dose: fino al 25 marzo chiusi tutti i negozi, garantiti solo gli approvvigionamenti e i servizi essenziali.Sono misure drastiche: oltre alla chiusura delle scuole e delle università, dei musei e delle biblioteche, delle palestre e delle piscine, dei cinema e delle discoteche, dei ristoranti e dei bar, i cittadini sono sollecitati a muoversi soltanto per ragioni di lavoro o di salute. Bloccati gli eventi sportivi, giornate e serate spettrali nelle città deserte con tanti saluti alla movida, una sorta di coprifuoco che richiama circostanze e tempi lontani. E forse non basta: la Lombardia stremata chiede di più, chiusura totale di ogni attività, trasporti compresi. La Confindustria non è d’accordo, le aziende vanno tenute aperte.
Conte si dice pronto a misure ulteriori ma avverte: no a richieste emotive.Minacciati di sanzioni anche penali, gli italiani sono pregati di restarsene a casa rinunciando alla loro congenita socialità. Roma applica, in forma democraticamente attenuata, quel modello cinese che nella sua versione originaria sembra inapplicabile a una società occidentale. Ha funzionato in Cina, dove la forzata segregazione di immense città e intere regioni ha ridotto la diffusione del morbo. Ha funzionato anche nella prima «zona rossa» italiana, quel grappolo di comuni attorno a Lodi che videro l’esordio dell’epidemia e dove da qualche giorno, dopo alcune settimane di isolamento pressoché totale, non si registrano nuovi contagi.Si è arrivati al giro di vite dopo settimane di tentennamenti, approssimazioni, fughe di notizie accompagnate da una serie di pasticci comunicativi.
La chiusura delle scuole fu dapprima diffusa dalla stampa, poi smentita e infine confermata. Qualche giorno più tardi furono annunciate le misure destinate alle aree a «contenimento rafforzato», di cui uscì sui giornali una bozza alcune ore prima della firma di Conte. Quell’anticipazione provocò un assalto alla diligenza: migliaia di lombardi di origine meridionale sui treni diretti al Sud. Cercavano riparo nelle famiglie d’origine, coinvolgendole così nell’emergenza che le aveva fin qui risparmiate.Nelle prime fasi della crisi la politica ha offerto uno spettacolo di inadeguatezza rispetto alla gravità del momento. Da una parte un aspro contrasto fra le regioni, responsabili della gestione sanitaria, e il governo centrale preoccupato di contrapporre alla sfida un’efficace risposta nazionale.
Poiché le due regioni più colpite, Lombardia e Veneto, sono guidate dalle forze di opposizione, il confronto istituzionale si è incrociato con la consueta virulenza polemica. Anche perché sono in calendario alcune elezioni locali, che nonostante l’emergenza richiamano l’attenzione dei partiti. Ma stavolta l’opinione pubblica, atterrita dal virus e ben poco interessata alle elezioni, non ha abboccato. I sondaggi rivelano un’erosione dei consensi per la Lega di Matteo Salvini, che resta tuttavia la formazione più popolare, e la rimonta del Partito Democratico, principale forza governativa. L’epidemia ha confinato in secondo piano i prediletti temi leghisti, come la pressione migratoria o la polemica sul ruolo dell’Unione Europea.
E così Conte, al timone nella bufera in quella che citando Churchill definisce l’ora più buia, veleggia in testa alle graduatorie del gradimento lasciando i rivali a debita distanza. Evidentemente la maggioranza degli italiani si fida di lui, nonostante l’economia ferma e il crollo dei valori in Borsa, mentre l’epidemia si accanisce proprio sul santuario produttivo lombardo-veneto. Dove si temono pesanti conseguenze sull’occupazione, dove si sentono relativamente al sicuro soltanto i settantamila frontalieri che hanno in Svizzera il loro posto di lavoro, visto che sono stati autorizzati all’espatrio pendolare con il consenso delle autorità elvetiche.Come se non bastasse, una congiuntura stagnante che rischia di precipitare nella recessione ha turbato ulteriormente il quadro una lunga rivolta nelle carceri, dopo la decisione di sospendere le visite dei famigliari per evitare contagi.
Un’esplosione di rabbia e violenza, in parte scaturita dal cronico problema italiano del sovraffollamento carcerario, con dodici morti per abuso di psicofarmaci sottratti alle infermerie o soffocati dal fumo degli incendi, e una ventina di evasi.Da settimane ormai medici e infermieri lavorano a ritmi massacranti in condizioni di forte tensione emotiva, perché le apparecchiature di rianimazione non bastano e dunque temono di dover prendere decisioni angoscianti selezionando i malati, concentrando gli sforzi su quelli che si considerano guaribili e abbandonando gli altri al loro destino. Il governo assicura che le lacune in materia di attrezzature saranno colmate e annuncia l’assunzione di nuovo personale, rimediando in parte agli effetti dei tagli alla spesa sanitaria decisi a suo tempo per far quadrare i conti pubblici.
L’opposizione vorrebbe, come il governo regionale lombardo, la chiusura totale delle attività, la vorrebbe per l’Italia intera, anzi per l’Europa. Chiede che per salvare il sistema produttivo vengano stanziati molto più dei venticinque miliardi di euro annunciati da Conte. Sarebbe tutt’altro che semplice: Roma ha chiesto e ottenuto a Bruxelles di portare il deficit a ridosso di quel tre per cento che è il massimo consentito dagli accordi di Maastricht e dal patto di stabilità, ma non pare possibile andare oltre. Intanto il Paese langue, in attesa che passi la nottata.

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