Quando l’epidemia di coronavirus è arrivata in Iran alla fine di gennaio il regime ha preferito ignorare la questione. C’erano altre faccende che sembravano più urgenti da sistemare, come la grande celebrazione a inizio febbraio dei quarant’anni della rivoluzione islamica e poi un paio di settimane dopo il voto per il nuovo Parlamento. Entrambe erano considerate occasioni molto preziose dai leader iraniani per dare una lucidata alla facciata del regime, che nei mesi prima aveva perso molta credibilità – come se ne avesse avuta molta da sprecare.A gennaio i pasdaran iraniani hanno abbattuto per errore un aereo passeggeri con 178 persone a bordo e il governo ha sostenuto davanti al mondo per tre giorni che si era trattato di un guasto meccanico.
Poi, quando ha realizzato che non avrebbe potuto resistere alle prove schiaccianti, ha ammesso che l’aereo era stato abbattuto da due missili terra-aria lanciati da una batteria messa a guardia dell’aeroporto internazionale di Tehran. Un paio di mesi prima, a metà novembre, il regime aveva soffocato con una campagna brutale di repressione alcune manifestazioni scoppiate in tutto il paese. La gente era scesa nelle piazze per protestare contro il rincaro dei prezzi ma era stata attaccata con cecchini dai tetti – le autorità avevano anche staccato internet per cinque giorni consecutivi, per evitare che i video delle violenze uscissero all’esterno del Paese e per impedire ai manifestanti di coordinarsi fra loro. Si parla di millecinquecento morti ma non ci sono numeri ufficiali, a causa dell’opacità del regime.
Febbraio dunque doveva essere il mese in cui l’Iran avrebbe rimesso a nuovo la sua immagine, con cerimonie solenni e una grande partecipazione popolare. I permessi di lavoro per i giornalisti stranieri, che erano impossibili da ottenere fino a pochi giorni prima, sono cominciati ad arrivare di nuovo. Lo scopo era dimostrare anche sulla scena internazionale che quarant’anni dopo la rivoluzione del 1979 i khomeinisti sono ancora amati e connessi con il popolo iraniano.Il regime – come tutti – non aveva fatto i conti con l’arrivo imprevisto del coronavirus. Anni di scontri con il mondo occidentale e di sanzioni hanno spinto sempre di più il Paese a creare rapporti commerciali con la Cina e così ci sono molti cinesi che viaggiano, fanno affari e lavorano in Iran. Il regime non ha mai voluto tagliare i rapporti con loro, perché sono importanti per l’economia. Mentre l’attenzione del mondo si concentrava sulla città cinese di Wuhan nel pieno della catastrofe, il coronavirus importato dalla Cina cominciava a circolare tra gli iraniani.
La prima notizia ufficiale sul virus in Iran non parla di malati, ma è l’annuncio di due morti – e questo è strano perché, come sappiamo, se ci sono dei morti vuol dire che ci sono già molti contagiati e che la trasmissione del virus risale a molti giorni prima, un paio di settimane almeno. Da quel momento il numero ufficiale di morti e malati dichiarato dall’Iran ha cominciato a crescere, ma gli esperti dicono che le dimensioni reali del contagio sono sempre state molto più grandi. Lo studio di una squadra di ricercatori dell’Università di Toronto dice che già allora, a metà febbraio, i contagiati iraniani erano quarantamila e non le poche centinaia di cui parlava il governo. A quel punto i leader iraniani erano ormai consapevoli del disastro in corso, ma non potevano permettersi per la seconda volta in due mesi dopo l’abbattimento dell’aereo di ammettere che avevano mentito alla popolazione. Così si è scelto con insistenza sciagurata di difendere la linea ufficiale: il virus è una bufala creata dalla propaganda perfida dei nostri nemici americani e il contagio, se c’è, è ridotto e sotto controllo. Ci sono cascati pochissimi iraniani e alle elezioni c’è stato il record negativo di affluenza ai seggi: mai così pochi negli ultimi quarant’anni. E molti si presentavano in mascherina e guanti.
Quando un parlamentare di Qom ha denunciato in pubblico che soltanto nella sua città e soltanto in dieci giorni c’erano stati cinquanta morti, il viceministro della Salute Iraj Harirchi s’è presentato in tv a sfidarlo: dammi la lista dei nomi, dammene soltanto la metà oppure un quarto e io mi dimetterò. Alla sera lo stesso viceministro è andato in televisione a spiegare che tutto era sotto controllo. Il giorno dopo Harirchi però ha mandato un video girato con il telefonino dal suo letto d’ospedale in cui ammetteva di avere pure lui il coronavirus.Dopo l’abbattimento dell’aereo, il regime ha scelto ancora una volta di mentire e raccontare che il virus era una bufala. Il regime iraniano non soltanto ha nascosto la presenza del virus nelle prime settimane, quelle che sono le più importanti per stroncare un’epidemia, ma ha anche agito da teocrazia: la religione ha la precedenza indiscussa sui cittadini.
E per questo non ha mai pensato di mettere in quarantena Qom, la città santa degli sciiti, che attira ogni anno ventidue milioni di pellegrini da tutto il Paese e due milioni e mezzo dall’estero. E neppure di chiudere i santuari, dove i fedeli si affollano tutti i giorni per appoggiare le mani sulle stesse grate in massa. In pratica Qom è diventata la grande piattaforma di lancio del virus nella regione. Per settimane la autorità religiose hanno insistito che visitare i santuari non soltanto non era pericoloso, ma anzi aveva il potere di guarire i pellegrini. Hanno dichiarato che gli interni placcati in argento del santuario di Fatima sono in argento e quindi hanno naturali proprietà antibatteriche – pure se fosse vero, il coronavirus è appunto un virus e non un batterio. Ci sono i video di fanatici che per dimostrare la loro fede leccano un reliquiario nel santuario di Fatima perché, dicono, Dio li protegge dal virus e chi non ci crede è un debole.
Il governo li ha lasciati fare anche per lo stesso motivo per il quale non aveva interrotto il via vai di cinesi, perché Qom con tutto il suo traffico di pellegrini è una fonte di ricavi importanti, specie per il clero iraniano, e isolare la città avrebbe provocato danni economici enormi – gli stessi che in Italia ci siamo rassegnati a subire.Mentre nel resto del Paese il regime chiudeva le università, nella città santa il grande traffico è stato incoraggiato. Era un grande frullatore virale e i risultati non si sono fatti attendere. Viaggiatori contagiati a Qom sono stati trovati positivi in tutti gli stati nelle vicinanze: dall’Afghanistan all’Iraq, dall’Oman al Kuwait, dal Bahrein al Libano agli Emirati Arabi Uniti. Recenti immagini satellitari mostrano gli scavi di nuove tombe in un’area enorme vicino alla città santa. E nel frattempo il governo cinese è andato a riprendersi con gli aerei i cinesi in Iran, perché li ritiene in pericolo.
C’è da riflettere: i cinesi considerano l’Iran molto più rischioso della Cina a causa delle dimensioni e della virulenza del contagio.Oltre a devastare i piani dei leader iraniani, il coronavirus è diventato una minaccia diretta contro di loro. Il circolo ristretto che domina il Paese ha in media un’età molto alta – la Guida Suprema Ali Khamenei ha ottant’anni – e ci sono stati molti casi di trasmissione al suo interno. Mohammad Mirmohammadi, consigliere di Khamenei, è morto. Ali Akbar Velayati, un altro consigliere di Khamenei che si occupa di politica estera, è stato di recente trovato positivo e ora è in quarantena, così come due vicepresidenti del Parlamento e almeno una quindicina di parlamentari. La Guida Suprema ora ha smesso di negare il problema e ha cambiato versione, sostiene che il virus esiste eccome e sarebbe un’arma batteriologica scatenata contro l’Iran dai suoi nemici. C’è un clima di incertezza. Almeno in questo, l’establishment del Paese è allo stesso livello di vulnerabilità di tutti gli altri iraniani.