Il coronavirus ha riportato in evidenza il classico dilemma fra libertà e sicurezza, democrazia e controllo sociale. In queste settimane le grandi democrazie, in ordine rigorosamente sparso, hanno alla fine optato per la massima limitazione possibile della libertà di movimento, l’abolizione della libertà di riunione e altre severe restrizioni. Qualcosa di mai visto in tempi di pace. Ma ci viene detto, con qualche enfasi, che siamo in guerra.Il modello di questa clausura è la Cina, seguita dall’Italia.Ricordiamo. L’epidemia è scoppiata a Wuhan, in Cina, intorno alla fine di novembre. Tenuta volutamente sottotraccia dalle autorità locali, che solo ai primi di gennaio hanno riportato la gravità della situazione al potere centrale. Secondo una prassi classica dei regimi autoritari, per cui la periferia comunica al centro solo ciò che presume il sovrano desideri ascoltare. In questo modo si è perso tempo prezioso, durante il quale il morbo si è diffuso con totale libertà.
Solo il 23 gennaio, finalmente informato nei dettagli della crisi in corso, Xi Jinping è corso ai ripari, decretando la quarantena per Wuhan, per la regione dello Hubei e per tutta la Cina. Strategia del contenimento. Molto rigida. Molto ma molto più severa di quella applicata in Italia e poi nelle altre democrazie occidentali. Chi usciva di casa finiva in galera. Alcune famiglie erano letteralmente confinate dentro le proprie quattro mura.Si è scritto che questa strategia è stata possibile grazie alle evolute tecnologie di comunicazione e raccolta dati di cui la Cina dispone, inclusa la rete 5G. È solo parte della verità. La tecnologia è importante, ma ancora più efficace è la capillare organizzazione territoriale del regime. Milioni di militanti del Partito comunista, insieme a diversi volontari e alle forze ordinarie di sicurezza, hanno garantito il controllo quartiere per quartiere, casa per casa, dei territori più infetti.
La Cina è stata inquadrata in un sistema a griglia, comprendente circa 650 mila unità territoriali, per ciascuna delle quali c’erano gruppi di funzionari deputati al controllo, alla distribuzione di cibo, al soccorso dei malati. Qualcosa di impensabile in Europa e in America. Ha funzionato, sia pure in ritardo e quando il morbo si era già diffuso ben oltre la Cina.I media occidentali che avevano già parlato di Chernobyl cinese sono rapidamente passati ad attribuire lo stesso epiteto agli americani, lasciati inizialmente al loro destino da un governo federale poco interessato a mettere la salute dei cittadini al primo posto, con Trump che parlava del virus come di una «bufala democratica» per sabotarne la rielezione.L’Italia, anch’essa in ritardo, ha dai primi di marzo seguito un approccio analogo. Con notevole disciplina sociale, a sopperire alla mancanza di strutture intermedie fra lo Stato e la popolazione – non c’è (più) un Partito comunista italiano, tantomeno al potere.
Quando i cinesi, avendo rovesciato la partita, hanno deciso di offrirsi al mondo come donatori di mascherine, respiratori e medici, aprendo una nuova via della seta, quella della salute, i loro uomini giunti in Italia hanno subito notato che rispetto ai loro standard la quarantena locale era piuttosto rilassata. Soprattutto, quasi nessun «community management», ovvio in un sistema autoritario. E con un popolo che nei casi di emergenza rivela un formidabile spirito organizzativo, come quello cinese.Non sappiamo fino a quando durerà il lockdown più o meno cogente nelle democrazie occidentali. Né quanto sarà sopportabile per popolazioni sotto stress, colpite insieme dalla pandemia e dall’infodemia – la diffusione costante e ripetuta di notizie ansiogene, spesso imprecise, inverificabili.
Meno ancora sappiamo fino a che punto le forze deputate al contenimento della crisi, dai medici ai poliziotti, dagli infermieri alla protezione civile, sapranno sopperire con il loro sacrifico alla crisi delle strutture intermedie. Di sicuro una revisione a mente fredda delle procedure di reazione alle crisi, che investa anche l’assetto costituzionale e istituzionale delle nostre democrazie, sarà inevitabile.Un aspetto evidente di questa crisi è la diversità di distribuzione di poteri e responsabilità fra Stati centralizzati e Stati più o meno federali o confederali. Il caso più clamoroso è quello degli Stati Uniti d’America, dove l’inerzia del governo federale, insieme agli obiettivi limiti delle sue strutture, ha lasciato di fatto ai singoli Stati federati di decidere come affrontare l’emergenza. Lo stesso vale, in minor misura, per la stessa Svizzera. E per l’Italia, stante l’infeconda dialettica Stato-Regioni. In alcuni di questi casi assisteremo forse al graduale accentramento dei poteri. Non solo nelle crisi. Saremo tutti un po’ cinesi?