Cinquemila miliardi di dollari: è la dimensione delle manovre di spesa pubblica decise a livello globale, per attutire lo shock della pandemia e delle misure restrittive che paralizzano l’attività. L’annuncio a effetto esce da un summit virtuale del G20. Lo slogan usato rievoca la celebre frase di Mario Draghi durante la crisi dell’Eurozona, i leader s’impegnano a fare «whatever it takes», tutto ciò che sarà necessario, per superare la pandemia. Lo sforzo è di mostrare un livello di cooperazione paragonabile a quello sfoderato dal G20 dopo la crisi finanziaria del 2008-2009.
Non è chiaro se dietro la solenne proclamazione ci siano volontà politiche e comportamenti concreti all’altezza della sfida. Uno dei test sarà sulla promessa dei leader di assicurare la libera circolazione di apparecchiature mediche e farmaci a livello mondiale, in una fase in cui alcuni produttori (Cina, India, Germania) hanno dato la priorità ai bisogni domestici. Sulle azioni dei governi che hanno vietato l’export di apparecchi respiratori e medicinali il G20 ha detto che «le misure di emergenza per proteggere la salute saranno mirate, proporzionali, trasparenti, e temporanee». Lodevole impegno che andrà verificato nei fatti: l’India sembra muoversi nella direzione opposta. Al totale di cinquemila miliardi di dollari il G20 è arrivato addizionando tutte le manovre di spesa pubblica varate o in corso di approvazione nei paesi membri, per fronteggiare l’emergenza sanitaria, erogare nuovi aiuti ai disoccupati e alle imprese in difficoltà.
È un’addizione di entità non sempre omogenee, include sia pagamenti diretti ai cittadini, sia prestiti che le imprese dovranno rimborsare in futuro. Donald Trump ha lanciato un’altra cifra, seimila miliardi di dollari che gli Stati Uniti da soli mettono in campo. Questo totale risulta il triplo della manovra di spesa pubblica varata a Washington, perché Trump ha voluto includere anche la nuova liquidità emessa dalla Federal Reserve. La banca entrale Usa, attraverso accordi di swap con altre banche centrali, sta pompando dollari per garantire l’ordinato funzionamento dei mercati mondiali, come fece dopo la crisi del 2008-2009. Se al G20 è prevalso il linguaggio della cooperazione, sullo sfondo rimangono delle tensioni: fra Stati Uniti e Cina sulle responsabilità della pandemia, fra Russia e Arabia saudita sulle quote di produzione petrolifera e la guerra dei prezzi.
America
In una sola settimana sono aumentati di tre milioni i senza lavoro ufficiali negli Stati Uniti, sono 3’283’000 gli americani ad aver presentato richiesta dell’indennità di disoccupazione.
Lo shock da pandemia – o per la precisione, le misure di restrizione alla mobilità decise per contenerla – hanno inflitto un tale danno al mercato del lavoro, da polverizzare il record storico della «peggior settimana», che risaliva all’ottobre 1982 quando in una sola settimana i disoccupati americani aumentarono di 695’000 unità. Come non bastasse, quella cifra di quasi 3,3 milioni in realtà sottostima la vera entità dei senza lavoro, perché registra solo quelli che possono fare domanda dell’indennità di disoccupazione: ne sono esclusi i lavoratori della cosiddetta «gig economy» cioè i precari con contratti part-time o a tempo determinato; ed è una categoria dove i licenziamenti stanno arrivando in massa. È finita di schianto un’epoca durata un decennio, un periodo di eccezionale lunghezza nella crescita americana e aumento dell’occupazione. Quel periodo vide 113 mesi consecutivi di creazione netta di nuovo lavoro e un tasso di disoccupazione sceso al 3,5% cioè il minimo da mezzo secolo.
Nella manovra anti-crisi varata a Washington 954 miliardi di dollari andranno in sussidi diretti, prevalentemente alle famiglie sotto forma di assegni d’integrazione del reddito, indennità di disoccupazione, ma anche aiuti agli Stati e sgravi fiscali; in questo capitolo rientrano 32 miliardi di trasferimenti ai settori più colpiti come il trasporto aereo. Una tranche di 849 miliardi è fatta di prestiti agevolati, aiuti alle imprese. 17 miliardi sono riservati a imprese strategiche per la sicurezza nazionale, dove la parte del leone la farà Boeing. «Entro Pasqua voglio riesaminare la situazione e allentare le restrizioni», così Trump affaccia l’ipotesi di una quarantena breve per gli americani. In realtà le limitazioni vengono decise dai governatori degli Stati Usa; la frase conferma che il presidente teme «una cura peggiore del male» se l’America finisce in una depressione.
La banca JP Morgan Chase nel secondo bimestre vede un tracollo del 30% per il Pil americano, senza precedenti nella storia, e una disoccupazione triplicata al 13%. Scommettendo su una ripresa a forma di «V», cioè un rapido recupero nella seconda metà del 2020, l’anno si chiuderebbe secondo questa previsione con una discesa del Pil pari a meno 2,4%. Brutale perché rappresenta un arretramento di cinque punti del Pil rispetto al trend pre-Covid, eppure ottimista, perché presuppone una durata breve della paralisi da pandemia.Tra i «vincitori» della situazione ci sono i big del commercio online e delle consegne a domicilio Walmart (+150’000 assunzioni) e Amazon (+100’000 assunzioni). Ai beneficiati dal boom di acquisti-accaparramenti di alimenti, medicinali e prodotti per la casa, si aggiungono la catena di farmacie-drugstore Cvs e tanti altri operatori della grande distribuzione (Dollar General, 7-Eleven): il «Wall Street Journal» stima che questo settore assumerà 500’000 lavoratori nelle prossime settimane.
Asia
L’annuncio di una levata di restrizioni sulla libertà di movimento a Wuhan e nella provincia circostante dello Hubei è un segnale che sembra confermare lo spettacolare miglioramento sul fronte cinese.
Meno rassicurante è la conferma che Pechino intende espellere corrispondenti delle tre maggiori testate americane, «New York Times», «Washington Post», «Wall Street Journal»: la qualità della nostra informazione su quanto accade in Cina continua a deteriorarsi.Inoltre bisogna fare attenzione ai dettagli sul «cessato allarme» nel focolaio originario dell’Hubei. La data annunciata per il ripristino della circolazione fra lo Hubei e le altre provincie è l’8 aprile; però da quel giorno potrà riprendere a spostarsi solo chi ha le carte in regola sul suo stato di salute. Ciascun cittadino avrà le informazioni sanitarie riassunte nel suo codice QR (l’identità digitale che ciascun cinese ha sul suo smartphone, associata all’indirizzo di social media, per esempio Weixin-WeChat) facilmente consultabile dalla polizia.
Il Grande Fratello cinese continua la sua avanzata spettacolare: dovremo adattarci un giorno anche noi? Chi mostra di avere davvero fiducia nella normalizzazione cinese, sono i piccoli risparmiatori. La buona performance delle Borse cinesi è dovuta in gran parte a loro: milioni di cittadini sono tornati a usare perfino il credito bancario (abbondante e a tassi ridotti) per speculare in Borsa scommettendo sulla ripresa. Tra gli effetti di lungo periodo di questa crisi, con cui avremo a che fare quando ne saremo usciti, ci sarà un ritorno alla grande del capitalismo di Stato in Cina: il settore privato ne uscirà ridimensionato, visto che la risposta di Xi Jinping è affidata al dirigismo e punta sul ruolo delle imprese pubbliche.
Europa
Non deve illudere la sospensione del Patto di Stabilità, che equivale a dire a chi sta affogando: finalmente sei libero di nuotare, arrangiati da solo. Il vero scontro è quello sui Coronabonds, la cui emissione potrebbe finanziare uno sforzo comune contro l’epidemia, contro la recessione, e per aiutare i paesi più colpiti.
Ma contro i Coronabond per adesso è scattata la Santa alleanza nordica: Germania Olanda e i soliti noti. Il ministro tedesco dell’Economia Peter Altmaier dice: «Invito alla cautela quando vedo delle presunte nuove idee, concetti geniali che in realtà sono idee stravecchie, già scartate tanto tempo fa». Il concetto zombie che lui sbeffeggia è quello degli Eurobond, che rappresentano una forma di solidarietà di bilancio contro cui la resistenza tedesca è granitica come sempre.Dunque l’epidemia non sta affatto rilanciando la solidarietà europea. Il «Financial Times» ripropone una vecchia domanda: il settore bancario italiano è abbastanza forte per reggere lo shock del coronavirus? Il quotidiano finanziario torna sulle solite debolezze: il peso dei titoli di Stato italiani nei bilanci delle banche, e l’inevitabile impennata delle sofferenze con i fallimenti di aziende. Il «Financial Times» cita l’economista Lorenzo Codogno, che lavorò al Tesoro, secondo il quale «la situazione è disperata, e senza la BCE l’Italia sarebbe già in default».
Scenario futuro
Quale capitalismo uscirà da questa grande crisi? C’è chi parla di un ritorno di socialismo, per lo tsunami di spesa pubblica, sussidi alle imprese, salvataggi, nazionalizzazioni striscianti. Intanto possiamo tenere un bilancio parziale sui vincitori provvisori di questa emergenza. Big Tech e la Silicon Valley sono in cima alla lista: tutta la rivoluzione del tele-lavoro, nonché il boom di consumi digitali forzati dal nostro isolamento casalingo, è manna dal cielo per questo settore. Microsoft registra +40% nell’uso delle sue piattaforme digitali per la collaborazione a distanza. Netflix ha visto aumentare lo streaming di film e serie tv del 35% in Spagna, del 66% in Italia.La messaggeria WhatsApp ha raddoppiato il volume di traffico. Perfino Apple riesce a conquistarsi un posto nell’elenco dei vincitori, malgrado il danno subito nella fabbrica cinese dove la Foxconn assembla i suoi iPhone: Apple compensa dal lato dei servizi come lo streaming da Apple TV. Google come Apple trattiene la sua quota su ogni vendita di app che passa dai software Android degli smartphone. Da notare anche la rivincita di Facebook come piattaforma per l’informazione.