Il Covid è di tutti

by Claudia

Intervista – Frank Snowden, storico e autore di un libro sulle epidemie, ci spiega quali sono le sfide che dovranno affrontare le nostre società

Frank Snowden è uno storico specializzato in epidemie, professore emerito di storia e storia della medicina a Yale ha scritto un libro dal titolo Epidemics and Society: From the Black Death to the Present, sulle pandemie nel corso dei secoli e il loro impatto sulle strutture politiche e culturali. Nel suo libro Snowden afferma che il tasso di mortalità delle pandemie non corrisponda necessariamente ai suoi effetti sulla società e che le epidemie siano lo specchio delle società e le costringano a interrogarsi sull’imminenza della morte e le responsabilità collettive.

Nella prefazione al suo libro sostiene che le epidemie non siano eventi casuali ma che ogni società produce le proprie vulnerabilità specifiche. Studiarli è capire la struttura di quella società, il suo tenore di vita e le sue priorità politiche». Quali vulnerabilità sta producendo il Coronavirus e cosa ci raccontano della nostra società?

La storia si ripete e il Covid-19 non fa eccezione a questa generalizzazione. Il Covid sta rivelando vulnerabilità di vario tipo. Una è la vastità della nostra popolazione. Ci sono quasi 8 miliardi di persone nel mondo e riflette l’enorme urbanizzazione, le città congestionate ma collegate da rapidissimi mezzi di trasporto. È molto facile per una malattia esplodere la sera in Cina e raggiungere, la mattina dopo, Parigi o Città del Messico. Il coronavirus è in grado di inserirsi in una società altamente urbanizzata, industriale, congestionata e collegata da grandi reti di commercio e riesce a sfruttare le fessure della nostra società, e affliggere specifiche categorie di persone. Gli anziani ne sono un esempio.Come è noto questo virus è più pericoloso e più trasmissibile tra gli anziani rispetto ai giovani ed è un’ironia che con il suo buon servizio sanitario l’Italia abbia tra le più alte longevità nel mondo e dunque una corte molto ampia di persone anziane, dunque vulnerabile sotto questo aspetto.

Prontezza è stata una delle parole più ripetute di questa crisi. Il rischio di non essere pronti è fomentare disparità e restare, di nuovo, impreparati in futuro.
Il Coronavirus sfrutta le fratture create dalla povertà, e dalla disuguaglianza economica. Sebbene affligga tutte le classi sociali e tutte le età, ci sono alcuni gruppi particolarmente vulnerabili e quindi il virus dimostra ancora una volta i punti deboli delle nostre società. Detto questo, credo che un altro enorme problema riguardi il modo in cui ci siamo (o meglio non ci siamo) preparati a virus di questo tipo. Era noto dal 1997 con l’influenza aviaria e poi ancora con la Sars , l’Ebola, il pericolo epidemico. L’OMS aveva messo in guardia sul futuro delle influenze pandemiche. Ma diverse nazioni hanno in gran parte smantellato il loro apparato di preparazione e tagliato i finanziamenti per la salute pubblica. Nel biennio 2018/19 l’OMS aveva realizzato uno studio sullo stato di preparazione del mondo per affrontare una grande sfida per la pandemia e aveva concluso che vivevamo in un «Un mondo a rischio», a cui non siamo preparati. Per concludere ritengo dunque che il virus evidenzi vulnerabilità delle aree densamente popolate che presentano ineguaglianze interne e che pervicacemente non si sono preparate ad affrontare emergenze di questo tipo nonostante le sollecitazioni nel tempo.
Il percorso per gestire un’epidemia è sanitario ma anche culturale.
C’è un ritardo nella produzione di reazioni culturali alle malattie epidemiche e, lo vediamo, anche di reazioni politiche. Il Coronavirus mette a dura prova le relazioni politiche dell’Unione europea e le relazioni dei paesi al suo interno e abbiamo assistito a quanto sia stato difficile coordinare una strategia unificata e un approccio comune verso questa malattia. Ci sono gruppi in tutta Europa e certamente negli Stati Uniti che sfruttano molto questa malattia per accelerare l’avanzamento del sentimento anticomunitario sostenendo che sia il risultato della globalizzazione e dell’immigrazione. Negli Stati Uniti, il Presidente afferma che si tratti di un virus cinese, rifiutando di usare la terminologia scientifica, alimentando ondate di xenofobia e nazionalismo.È necessario dunque lavorare sulle reazioni politiche e culturali al virus.

Come l’influenza spagnola che ha ucciso 50 milioni di persone e nulla aveva a che fare con la Spagna.
Infatti, influenza spagnola era una definizione impropria, il nome è determinato dal fatto che dato che la Spagna non era coinvolta nel primo conflitto mondiale, la sua stampa non era soggetta a censura e la sua esistenza fu riportata solo dagli organi di informazione di quel Paese, l’influenza spagnola è nota come la pandemia dimenticata.
Mi lasci dire che di quella epidemia è interessante notare che nonostante l’enorme tasso di mortalità il suo impatto non fu pari alla Peste Nera, questo dà l’idea di come nella storia delle epidemie il numero delle vittime non sia necessariamente correlato alle conseguenze sociali, politiche e culturali.La Peste Nera nel 1300 ha avuto un impatto devastante sulla società, dall’arte alla religione ai processi economici, ha promosso quello che è poi diventato lo stato moderno perché le comunità necessitavano di organizzarsi per prevenire la malattia e dunque avevano bisogno di un’autorità centrale.
In una recente intervista al «New Yorker» ha affermato che la risposta cinese allo scoppio del coronavirus l’abbia «terrorizzata», perché se le persone non collaborano con le autorità, questo aumenta il contagio.Come pensa che questa esperienza cambierà il nostro atteggiamento verso l’autorità e il controllo? Vede alcune somiglianze con le epidemie del passato nella relazione con il potere e il rapporto tra cittadini e autorità?
Non esiste una correlazione univoca tra una malattia epidemica e il tipo di strutture politiche o movimenti che sono rafforzati o indeboliti da essa. Ogni epidemia è sé stante. Non sono state solo sinonimo di repressione ma hanno, a volte, promosso grandi cambiamenti e rivoluzioni sociali. Si pensi alla fine della schiavitù ad Haiti e alla sconfitta dell’esercito napoleonico, la Grande Armata distrutta dalla febbre gialla a causa del differenziale nella mortalità di persone di origine africana, gli schiavi per intenderci, che erano immuni, e gli europei, che arrivarono per schiacciare la rivolta e non avevano immunità. Pertanto, nei mesi estivi le forze napoleoniche furono totalmente devastate e il comandante in capo scrisse di non poter continuare a combattere perché l’80% delle sue truppe era morto e il restante 20% convalescente e inabile alla guerra. Quindi, i francesi si arresero e questo significò una rivoluzione ad Haiti, la prima repubblica nera libera, e fu un colpo alla schiavitù. Questo è un esempio di epidemia che promuove il cambiamento sociale, la liberazione e la fine della schiavitù. D’altra parte, può anche creare pressioni verso una politica di destra, e in molti paesi si discute se affrontare un’epidemia di questo genere nelle forme del controllo e dello stato autoritario perché le democrazie non sono in grado di prendere le misure necessarie. La crisi non è mai solo medica. È psicologica, economica, politica.Quindi, non sappiamo ancora quale direzione prenderà, ma sono certo che alcuni paesi sosterranno la svolta verso l’autoritarismo e altri saranno in grado di fronteggiare questo rischio.

Pensa che questa pandemia possano livellare le disparità in termini di accesso alle cure mediche o il rischio sia di alimentare le disparità anche su questo piano?
Spero che la ricerca di un untore non allontani il fuoco della riflessione, quella sull’attività scientifica. Affrontare pseudo-problemi, come affibbiare colpe all’immigrazione per questo focolaio genera mitologie che paralizzano la salute pubblica invece di promuoverne miglioramenti. Spero dunque che le persone capiscano che la scienza deve andare avanti e abbandonino fantasie paranoiche di ogni tipo che sono pericolose non solo politicamente ma anche dal punto di vista medico.
L’Italia fu uno dei primi luoghi a essere colpiti dalla Peste Nera. I marinai che arrivavano nel porto di Venezia separati dalla società per 40 giorni. Ora lei osserva l’Italia dall’Italia, il blocco è una buona soluzione, l’unica possibile. Oppure serve altro?
Credo che dobbiamo guardare alla Corea del Sud, un paese che è riuscito a contenere la malattia basandosi sulla preparazione, sviluppare la capacità di praticare test di massa. A questo si accompagna ovviamente l’isolamento delle persone che risultano positive, la tracciabilità dei loro contatti stretti e il loro autonomo autoisolamento. È una componente importante di una risposta collettiva ed è una risposta in qualche modo promossa anche dall’OMS. Il blocco è solo parzialmente efficace. Probabilmente si guadagna tempo ma la malattia rischia di rimbalzare di nuovo se la sanità pubblica non si dota di test che consentano loro di identificare con precisione il denominatore, cioè tracciare l’epidemiologia della malattia, e conoscere effettivamente quali settori della popolazione siano interessati e poterli identificare. È davvero fondamentale per andare avanti. E ci sono diversi tipi di blocco. La normativa italiana ha disposto un blocco severo. Nella provincia di Hubei, in particolare a Wuhan, in Cina, il blocco è stato rafforzato con la censura dei medici che dicevano la verità sulla malattia. Dunque non direi che un blocco è una misura inutile, direi che è una misura parziale, e forse ne avremo bisogno per un certo periodo, ma senza test di massa non si va avanti e serve una cooperazione transnazionale per creare risorse e distribuirle dove sono più necessarie. Creare barriere tra Stati è un fattore negativo, la risposta alla malattia è la collaborazione internazionale. Guardare più alla Corea del Sud e meno alla Cina.
C’è chi ritiene che il virus può livellare le differenze tra poveri e ricchi, ma nel suo libro lei afferma il contrario. Pensa che anche il virus alimenterà i pregiudizi?
Credo che questo virus abbia il potenziale per farlo e in parte lo stia facendo.Negli Stati Uniti c’è la corsa a incolpare qualcuno. Gli obiettivi sembrano essere diventati gli stranieri, principalmente gli asiatici e questo ha prodotto un’impennata di violenza. Abbiamo persone di origine asiatica, non necessariamente cinesi, aggredite in strada o in metropolitana. Gruppi di persone di orgine asiatica scrivono su gruppi online e si organizzano in gruppo pur di non prendere la metropolitana da soli. Tutto questo è molto deprimente. A questo si accompagna una tensione generazionale, i giovani che hanno difficoltà economiche e probabilmente hanno votato Donald Trump e sentono che il miglioramento della loro vita sia ostacolato dalla tutela delle persone anziane. C’è un’espressione orribile sui social media di #boomerremover, i Boomer sono le persone anziane, i prodotti del Baby Boom (generazione post ww2) e l’idea è che il Coronavirus ne spazzerà almeno alcuni. Non sto ovviamente dicendo che questa sia una caratteristica dominante, ma è una delle patologie che emerge.

Nella risposta dell’Italia la tutela della vita umana, ogni vita umana, non è stata messa in discussione.

Ciò che mi ha colpito in Italia è il senso di conformità alle normative sulla salute pubblica. Le persone sono un insieme e mi sembra che i cittadini siano resistenti nel far fronte a questa emergenza da cui si uscirà con estrema difficoltà. Credo che gli Stati Uniti abbiano da imparare dal tentativo dell’Italia di parlare con una voce sola. La comunicazione negli Stati Uniti è molto frammentata. Ogni comune, ogni consiglio scolastico, ogni Stato – e sono 50 – ha politiche diverse, questo confonde le persone e le rende diffidenti nei confronti delle autorità sanitarie. Pertanto ritengo che il modo in cui questa crisi viene gestita dalle autorità abbia un grande effetto anche sulla risposta della comunità.

Gli Stati europei hanno chiuso i confini. Pochi sembrano interessati al destino dei paesi colpiti ma più svantaggiati. Crede che questo virus rischi di incrementare la diffidenza, la paura degli altri e un aumento del protezionismo da cui difficilmente si tornerà indietro?
È una grande preoccupazione, non solo mia. L’OMS, per esempio, ha sostenuto strenuamente che una delle lezioni da imparare fosse la capacità di prepararsi ad arginare questi fenomeni. Quando Bruce Aylward, consulente del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità e a capo della squadra della missione congiunta OMS-Cina su Covid-19, è tornato dalla Cina gli è stato chiesto cosa avremmo dovuto fare per essere preparati e ha detto: «Dobbiamo trasformare la nostra mentalità». Credo intendesse i nostri impegni morali e la nostra visione sociale. Stiamo tutti vivendo la medesima cosa e quindi è necessaria la cooperazione internazionale perché i microbi non rispettano la classe sociale, la nazionalità e la razza. Spero vivamente che il muro di Trump non sarà visto dalle generazioni successive come la grande metafora della nostra era, perché è sia eticamente altamente discutibile, sia praticamente inefficace nel far fronte a un’emergenza di salute pubblica, a una malattia trasmessa da un virus polmonare che viaggia nell’aria e che peggiora perché crea uno stigma. E uno stigma è sempre lo stigma dell’Altro.