Altro che cigno nero

Il 23 gennaio scorso, quando Pechino ha ordinato la chiusura totale di un’intera provincia cinese – lo Hubei, il cuore pulsante della Cina produttiva – chiunque segua le questioni asiatiche, studiosi, analisti, professori, politici hanno pensato: ecco, è arrivato, è il cigno nero. L’evento inaspettato che può cambiare il corso degli eventi, e modificare alle fondamenta la leadership cinese. Il presidente Xi Jinping, il secondo uomo più potente del mondo, dopo aver lanciato la rincorsa al nuovo Sogno cinese, aver dato nuova vita al nazionalismo, al patriottismo, e aver rinvigorito il grande progetto strategico di influenza cinese nel mondo, potrebbe essere indebolito. A distanza di tempo, sono state forse premonitrici le parole di Xi Jinping pronunciate un anno fa durante un incontro con i funzionari del partito locali.
Xi aveva detto che la Cina deve essere molto attenta ai cigni neri e ai rinoceronti grigi, l’espressione che si usa per definire una minaccia prevedibile e ignorata. Il leader cinese si riferiva all’economia cinese, il fattore fondamentale che ha permesso la riscossa del Paese asiatico: il patto sociale tra il Partito comunista e i cittadini, il motivo dell’accettazione dell’autoritarismo risiede esclusivamente nel fatto che i cinesi si sono arricchiti, che i numeri della povertà sono stati quasi azzerati, e negli ultimi quindici anni Pechino è riuscita a governare un Paese sterminato trasformando le città in megalopoli tecnologiche, le campagne in sistemi produttivi capillari, la Cina nell’alfiere della globalizzazione. Xi Jinping metteva in guardia i suoi funzionari sui cigni neri che avrebbero potuto minare la sicurezza della crescita economica un anno prima della realizzazione di una catastrofe che in poche settimane avrebbe coinvolto il mondo interno.
Kerry Brown, sinologo e storico della Cina, il 2 febbraio su «Inside Story» scriveva che «i cigni neri sono ciò che il Partito comunista cinese teme di più», perché la storia della Cina è fatta di catastrofi naturali, enormi shock sociali che portano a un periodo di caos pericoloso per la leadership. «Di tutti gli eventi pericolosi, ce ne sono due che il partito teme di più: la carestia e le emergenze di salute pubblica. Per il caos a Hong Kong si può dare la colpa agli stranieri. Lo stesso vale per i problemi economici». Per le crisi sanitarie tutto è diverso. E lo abbiamo visto in passato: nel 2007 la crisi del latte contaminato subito prima delle Olimpiadi di Pechino «ha sollevato dei dubbi profondi sul fatto che il Partito fosse davvero pronto a un compito di tale portata», scriveva Brown.
Ma ci sono anche altri esempi di eventi che hanno minato la fiducia dei cittadini nei confronti del Partito quando si tratta di salute pubblica: nel 2008 il terremoto del Sichuan, cinque anni prima l’epidemia di Sars, cioè la prova generale per l’Asia di una malattia simil-influenzale epidemica e che ha cambiato quasi tutti i protocolli sanitari del mondo. Anche in quell’occasione il governo di Pechino aveva cercato di minimizzare la situazione, e di gestire le notizie più che l’epidemia, che invece ha provocato almeno 349 morti nella Cina continentale e quasi trecento a Hong Kong.Sono numeri incomparabili con la pandemia che stiamo vivendo oggi, ma tutti questi casi hanno contribuito a minare il rapporto fiduciario tra governanti e governati. Questa volta, però, Xi Jinping era preparato, e sapeva come affrontare il suo cigno nero.
Durante il mese di gennaio e fino alla «prima liberazione di Wuhan», la città dove tutto è iniziato, la propaganda interna cinese ha lavorato molto per incolpare della cattiva gestione dell’epidemia i governanti locali. È stato un lavoro piuttosto facile: Xi ha fatto sapere di aver dato istruzioni su come gestire l’epidemia già il 6 gennaio, ma nessuno dei funzionari – il sindaco di Wuhan, gli ufficiali di Partito – hanno dato seguito alle sue richieste, organizzando comunque banchetti e feste per il Capodanno cinese. Subito dopo gli alti rappresentanti del Partito nello Hubei sono stati sostituiti. È un metodo consolidato in Cina, anche con la «guerra totale contro la corruzione» Xi Jinping era riuscito a fare un repulisti all’interno del Partito per consolidare il suo potere ed eliminare le correnti avversarie.
All’inizio di febbraio, durante una visita a Wuhan di Sun Chunlan, 70 anni, vicepremier con delega alla Sanità e unica donna del Politburo, i cittadini della capitale dello Hubei hanno inscenato una protesta: non era contro Sun – e quindi contro il governo centrale – ma contro i funzionari che la stavano accompagnando per le strade isolate e deserte della città. Le urlavano: «Non è vero niente!», come a dire che gli sforzi delle autorità locali non erano stati affatto all’altezza.Subito dopo i media ufficiali hanno riportato di aver aperto un’inchiesta sulle reali condizioni dei cittadini di Wuhan durante il lockdown. La morte del medico Li Wenliang, il primo ad aver dato l’allarme all’ospedale di Wuhan di ciò che stava succedendo, ha provocato sui social network cinesi un’ondata di indignazione che è riuscita ad aggirare la censura. Anche qui, il governo di Pechino ha usato quell’indignazione per dare la colpa alla polizia locale – colpevole di essere esagerata nel controllo delle notizie – e poi si è impossessato della figura di Li Wenliang. Dal punto di vista della propaganda interna, l’evoluzione della narrazione di Xi non ha fatto che rafforzare il potere del governo centrale.
In cinese la parola per indicare «crisi» è composta da due caratteri, che singolarmente significano sia «pericolo» sia «opportunità». Ogni crisi può essere un’opportunità se sfruttata a proprio favore. Sulla propaganda esterna, cioè quella rivolta alle relazioni internazionali, la strategia di Xi Jinping è stata altrettanto efficace. Sin dai primi giorni il leader ha cercato di usare metafore che sottolineassero l’epicità di una battaglia condotta dal popolo cinese contro «il diavolo che si nasconde», cioè il virus. Il 10 marzo è il giorno della riconquista trionfale di Wuhan, quando Xi Jinping visita la città. Il nemico è battuto. La realtà, come sappiamo, è molto diversa: soltanto un mese dopo il lockdown della città e delle aree circostanti è stato alleggerito, e non è certo un ritorno alla normalità. Ma quella visita serviva alla leadership cinese per annunciare al mondo di essere il primo Paese ad aver sconfitto il virus, di averlo sotto controllo e di poter iniziare a insegnare agli altri come si fa.
È per questo che a marzo sono iniziati gli aiuti e le donazioni di materiale di protezione cinesi in Europa, e soprattutto in Italia, il paese che a quel tempo era il più colpito dall’epidemia e soprattutto il più amico di Pechino. Le donazioni umanitarie cinesi hanno sempre un significato politico, e l’invio, oltre che delle mascherine e di respiratori, anche di team di medici, dimostra la necessità di mostrarsi influenti, indispensabili, e di capovolgere nel giro di poche settimane la narrazione sulla pandemia. La Cina di Xi Jinping vuole mostrarsi al mondo come la potenza responsabile in grado di aiutare i paesi amici in difficoltà – un’immagine completamente diversa da quella che solo un mese fa i paesi europei avevano del governo cinese, cioè il vero responsabile dell’inizio di una pandemia. Ma il Sogno cinese di Xi Jinping è ancora lì.

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