L’impressionante aumento nella disoccupazione americana (altri 5,2 milioni hanno perso il lavoro in una settimana, il totale supera i 22 milioni) aumenta la pressione su Donald Trump e sui governatori dei singoli Stati Usa per una riapertura graduale dell’attività: però mancano i test, e regna la confusione sulle regole per riaprire le città semi-paralizzate dagli ordini di lock-down o shelter-in-place. Trump ha riunito 200 fra top manager, imprenditori, sindacalisti, per discutere tempi e modi della riapertura. Ma la reazione degli interpellati è unanime: per normalizzare l’economia occorre fare test a tappeto. E gli Stati Uniti non sono in grado di farli, la capacità di effettuare esami diagnostici è una frazione rispetto a Germania e Corea del Sud.
Regna la confusione anche su quali dovrebbero essere le nuove «regole d’ingaggio», gli standard di sicurezza sanitaria da adottare nei luoghi di lavoro, negli esercizi pubblici, nei trasporti, nelle scuole e università. L’Amministrazione federale è latitante. Ci provano a sostituirla i governatori. Cuomo a New York, Newsom in California, hanno costituito due gruppi di governatori degli Stati adiacenti, uno sulla costa Est e uno sulla costa Ovest. Vogliono preparare la riapertura in modo coordinato. Ma si scontrano con lo stesso problema: senza la capacità di fare test di massa, non si sa quando ci saranno le condizioni per la riapertura. New York ha già prolungato le chiusure fino al 15 maggio, e impone le mascherine. Un rischio se si riapre troppo presto è di dover fare precipitosamente marcia indietro in caso di una recrudescenza nei contagi. Un altro rischio è che la mancanza di sicurezza rallenti il ritorno alla normalità, perché la paura dei lavoratori-consumatori prolungherebbe comunque gli effetti dei divieti anche dopo la loro cancellazione ufficiale.
A questo tentano di rispondere sia le grandi imprese americane che si attrezzano per la fase 2, sia quelle cinesi che hanno già riaperto. Bisogna affrontare una rivoluzione dei luoghi di lavoro, con precauzioni sanitarie che diventeranno la nuova normalità: dalla misurazione della febbre alle «distanze». La selezione della specie, la sopravvivenza delle imprese, dipende dalla loro capacità di adattamento. La protezione dal contagio, la prevenzione delle ricadute, anche in vista di una possibile seconda ondata, diventa discriminante. La sicurezza dei propri dipendenti e quella dei clienti sono collegate. In molti settori di attività, rassicurare è l’unico modo per tornare ad averne, di clienti. «The New Normal», la nuova normalità… sarà tutt’altro che normale, avverte il «Wall Street Journal» in un’inchiesta dedicata ai preparativi delle aziende americane.Hanno una lunghezza di anticipo quelle che sono presenti sul mercato cinese, e là stanno già vivendo la fase 2 con tutti gli adattamenti necessari. Un esempio è Disney, che ha riaperto la Disneyland di Shanghai. I visitatori, come i dipendenti, sono tenuti a indossare mascherine finché sono dentro il parco divertimenti. Gli orari sono stati accorciati, e il flusso di visitatori viene ridotto per impedire un affollamento. Prima dell’ingresso viene misurata la febbre di ciascuno. Ogni visitatore deve avere un codice digitale QR legato a un social media, dove sono memorizzate le informazioni sanitarie. Chi non ha passato il test non entra.
Un altro gruppo americano che ha riaperto in Cina è Starbucks. Il 95% dei suoi bar sono tornati in attività, ma hanno dovuto ridurre gli orari, diminuire i posti a sedere per poterli distanziare. Hanno aumentato intensità e frequenza nella pulizia degli ambienti, e incoraggiano i clienti a portarsi via la consumazione invece di rimanere nel locale. Queste misure verranno trasferite dalla rete cinese di Starbucks alle altre nazioni dove la multinazionale è presente, via via che l’attività ripartirà altrove. Il «modello cinese» diventerà globale. Le catene di ristoranti stanno progettando di riaprire con una capacità ricettiva dimezzata, per avere spazio a sufficienza tra i clienti. Fra un tavolo e l’altro vedremo apparire pareti divisorie.Le sale cinematografiche multiplex si rassegnano a condannare un sedile su due, per distanziare gli spettatori. Certe catene di negozi studiano come eliminare gli eccessi di manipolazione tattile: le profumerie forse dovranno rinunciare ai flaconi disponibili per chi vuole spruzzarsi un po’ di eau de toilette. Altri dovranno attrezzarsi per disinfettare gli articoli che vengono presi, toccati e poi rimessi negli scaffali.
Molti gruppi industriali progettano un nuovo layout nelle fabbriche. I turni alternati, gli ingressi scaglionati servono a evitare assembramenti. Si investe in maschere, tute protettive, guanti, schermi di separazione. Le mense aziendali e i bagni devono prevedere turni. Tanti uffici torneranno a usare pareti divisorie invece dell’ open space; si introducono materiali usa-e-getta per assorbire germi dalle scrivanie, cambiandoli ogni 24 ore. Come insegnò l’11 settembre con la sicurezza negli aeroporti, il provvisorio diventa permanente.Tra i problemi più immediati in America: mentre è già esaurito il fondo da 350 miliardi di dollari per prestiti alle imprese, molte piccole aziende non hanno ricevuto niente e stanno fallendo senza aver avuto accesso agli aiuti. Continua anche il caos nelle amministrazioni locali che dovrebbero erogare i sussidi di disoccupazione. Stanno arrivando invece i primi pagamenti diretti dal Tesoro alle famiglie: questi sono sussidi per tutti coloro che guadagnano meno di 99.000 dollari annui, a prescindere dallo status lavorativo, quindi non c’entrano con le indennità di disoccupazione.
L’accordo sui tagli della produzione petrolifera, tra Stati Uniti Opec e Russia, non basta a frenare il crollo delle quotazioni. Con la paralisi economica e la depressione in arrivo, il consumo di petrolio scenderà di almeno 9 milioni di barili al giorno, nel corso di tutto il 2020. Consumeremo quasi un terzo in meno del petrolio che venne usato nel 2019. Poiché venivamo già da una situazione di sovrapproduzione, i tagli concordati fra i maggiori produttori (con la regìa di Trump, Putin, Mohammed bin Salman) non bastano ad arginare il crollo dei prezzi.Si segnalano casi in cui il greggio è sceso perfino sotto zero: sì, ci sono alcuni produttori che non avendo capacità di stoccaggio pagano i clienti perché ritirino il petrolio. CME Group, numero uno mondiale nel trading di futures e opzioni finanziarie sul petrolio, è costretto a cambiare il suo software per poter gestire prezzi negativi. Mentre il petrolio ha perso il 40% del suo valore, e un’altra materia prima industriale come il rame ha perso l’8%, la commodity vincente è il caffè. I prezzi all’ingrosso sui mercati mondiali sono saliti del 20% dall’inizio di febbraio. Chiusi in casa, siamo tutti caffeinomani. Buona notizia per i maggiori produttori: Brasile, Vietnam, Colombia, Honduras, Etiopia.
In Cina la più importante manovra di rilancio dell’economia è affidata al credito. La banca centrale di Pechino – con un linguaggio inedito, ma che sta diventando caratteristico nella controffensiva geopolitica di Xi Jinping – si vanta di essere «dieci volte più efficace della Federal Reserve», perché creando nuova liquidità per 2000 miliardi di renminbi ha generato 7000 miliardi di renminbi (equivalenti a 1000 miliardi di dollari) di credito agevolato. Pompare credito fu una risposta alle crisi precedenti del 2009 e 2016, assai meno gravi di questa.La Corea del Sud è riuscita a tenere un’elezione regolarissima, addirittura con un record di affluenza alle urne: 66% di partecipanti su un totale di 44 milioni di elettori. È stato un altro capolavoro, in un Paese che tutti dovremmo studiare come un modello: gli elettori erano disciplinatamente in fila «distanziata», con maschere e guanti, mentre i seggi e le urne venivano disinfettati continuamente. La febbre veniva misurata a monte, prima che arrivassero a mettersi in coda, e chiunque avesse più di 37,5 gradi veniva dirottato verso seggi appositamente attrezzati. Va ricordato che la Corea del Sud è riuscita a evitare le chiusure generalizzate, grazie alla sua capacità di effettuare test su vasta scala. Il numero di nuove infezioni è sceso da 900 al giorno a febbraio, a 50 al giorno nella settimana delle elezioni.
In Europa, le case automobilistiche tedesche sono preoccupate per la crisi dei loro fornitori italiani concentrati soprattutto in Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia. Il tema è stato sollevato in una conference call fra Angela Merkel e i top manager di Volkswagen-Audi, Daimler, Bmw. Un’autovettura in media incorpora 30’000 componenti, e la mancanza di una piccola frazione di questi componenti può perturbare la catena produttiva. Mentre le grandi case automobilistiche tedesche hanno un accesso veloce agli aiuti pubblici, temono che non sia altrettanto vero per la miriade dei loro fornitori nel Nord Italia.
Fra i tanti ripensamenti che le multinazionali devono affrontare in quest’era post-globalizzazione, uno riguarda il futuro dei manager espatriati. Manager giapponesi in Thailandia, americani ed europei in Cina, taiwanesi e sudcoreani in Vietnam. Più avvocati, commercialisti, consulenti finanziari. C’è una vasta diaspora di espatriati che per decenni è andata crescendo: più che un’élite sono il «corpo ufficiali» nell’armata del capitalismo globale. Sono dovuti rimanere sul posto per essere pronti a riaprire le fabbriche. Ma la loro vita pre-pandemia era fatta di viaggi continui, riunioni di lavoro su tre continenti, nomadismo globale. Sono anche loro uno degli anelli deboli della catena: esposti a contagio, o vettori di contagio, presi di mira da quarantene, divieti di attraversare frontiere, controlli sanitari più stringenti. Dichiararli una categoria in via di estinzione sarebbe esagerato. Però anche questi ranghi verranno sottoposti a tagli selettivi, per ridurre le vulnerabilità.