Il mio nome è Robinson Crusoe

Dopo due mesi in giro per l’Asia, incontro il coronavirus a Bangkok a fine gennaio. Da due settimane la Thailandia ha il suo paziente zero, il primo caso fuori dalla Cina. Sui mezzi di trasporto, i Thai indossano mascherine con aria rassegnata: in soltanto quindici anni hanno già avuto Sars, influenza aviaria e peste suina. Io ho un visto di un mese per il Myanmar, mi chiedo cosa fare. Meglio tornare a casa? O passerà, come le altre epidemie asiatiche? Alla fine, parto per il Myanmar.

Alla frontiera terrestre tra Mae Sot e Myawaddy l’addetto sanitario birmano mi misura la febbre con un termoscanner: registra… 34,5 gradi, mi fa entrare. Ho l’inquietante conferma che la sanità birmana non riesce nemmeno a misurare la temperatura, figuriamoci contenere un’epidemia. Almeno sulla carta la Birmania non registra casi, ha sigillato i confini con la Cina e da inizio gennaio Pechino ha vietato i viaggi organizzati. Tranquillo? Non proprio.

Torno in Birmania dopo dodici anni e la trovo molto diversa da come la ricordavo: di certo più vivibile e attrezzata per il turismo. Visito le grotte di Hpa’an, trasformate in templi buddisti con bassorilievi nella roccia. Poi Mawlamyine, la capitale inglese del South Burma, la Moulmein di George Orwell in Diario Birmano, con i suoi edifici coloniali, infiniti mercati e la collina dominata da pagode. Questa zona, teatro di una interminabile guerra etnica, è stata vietata per decenni agli stranieri; ora è battuta da pochi viaggiatori indipendenti.

Giunto a Yangon, la più importante città della Birmania (anche se dal 2005 non è più capitale), capisco subito che la paura del Covid-19 è arrivata anche qui, almeno nella classe media. All’ingresso dei centri commerciali misurano la febbre e obbligano a disinfettare le mani. I benestanti indossano le mascherine e io li imito, soprattutto nei bassifondi dei quartieri musulmani.

Yangon concentra tutti i contrasti del Paese più povero e drammatico del Sudest Asiatico: in pochi isolati si passa da shopping centre di lusso stile Singapore a slum con fogne a cielo aperto e la certezza che lo street food è contaminato. Tra le pagode di Swegandon, la maggiore testimonianza liturgica del buddismo, incrocio gli ultimi viaggi organizzati italiani, tedeschi, francesi, ma scompaiono in pochi giorni. Crollano i prezzi degli hotel: trovo un tre stelle con colazione a Sula Paya, cuore di Yangon, per venti franchi.

Il bus per Bagan, la capitale degli antichi regni birmani nelle pianure centrali asciutte del Paese, è mezzo vuoto. Nella guesthouse sono occupate solo tre stanze. Visito in tutta tranquillità con la mia compagna le antiche pagode e ringrazio per la chiusura dei confini ai cinesi. Sono da soli una buona metà del turismo birmano e in altri tempi sciamerebbero tra i monumenti di uno dei siti archeologici più preziosi dell’Asia. Anche i tour europei sono ridotti al lumicino.

Il giorno dopo sul bus per Mandalay siamo in quattro. Ricevo brutte notizie dall’Italia, centinaia di casi. Ho fatto bene a restare? Forse. A Mandalay, porto commerciale sul fiume Irrawaddy, capitale del Regno birmano fino all’occupazione britannica del 1885, si moltiplicano le mascherine e spariscono del tutto gli stranieri. Anche a Pyin Oo Lwin – la Hill Station costruita dagli inglesi a nord di Mandalay, popolata da indiani portati dai British Raj – non ci sono più turisti. Siamo gli unici occidentali nel più spettacolare giardino botanico del Paese.

Le notizie dall’Europa peggiorano ancora e la data del ritorno si avvicina: ma ha senso tornare? Per ora torniamo in Thailandia.

Cresce l’allarme. Gli addetti dell’aeroporto di Mandalay indossano mascherine, occhiali protettivi e guanti di gomma. All’arrivo all’aeroporto Don Mueang di Bangkok stessa scena. In altri tempi le operazioni doganali richiederebbero un’ora, ma non c’è nessuno e in dieci minuti dall’atterraggio siamo fuori dall’aeroporto. Sul bus per il centro la bigliettaia passa un asciugamano impregnato di disinfettante su maniglie e tubi di sostegno. Disinfettanti gratuiti per i clienti sono obbligatori in hotel e ristoranti; per entrare nei centri commerciali è obbligatoria la mascherina e viene misurata la febbre. Il taxista ci spruzza disinfettante sui palmi prima di farci salire.

Anticipiamo il rientro? Le notizie sempre più drammatiche dall’Europa suggeriscono semmai il contrario. È il 1 marzo, il nostro volo di ritorno è previsto per il 18, vediamo che succede.

Intanto andiamo a Ko Tao, isola nel Golfo del Siam apprezzata per snorkeling e immersioni nell’acqua trasparente guizzante di pesci. Di solito Ko Tao è affollatissima, ma ora la spiaggia è tutta per noi. Le notizie dall’Italia peggiorano ulteriormente, per quanto possibile. E intanto il contagio è sconfinato in Ticino. S’impone una decisione definitiva. Dopo tutto, la Thailandia è il Paese più affidabile della regione, con buone cliniche, in tempi normali meta di turismo sanitario. I casi di Covid-19 sono pochi: a fine gennaio erano trentadue, a metà marzo quaranta. In Italia sono decine di migliaia e il contagio dilaga in Europa. Restare è la scelta giusta. Forse. Ma ormai non importa, Thai Airways sceglie per noi: prima sposta il nostro volo di ritorno da Milano a Roma e dopo qualche giorno lo cancella.

Si diffondono paura e diffidenza: le banche non cambiano più valuta straniera (potrebbe essere infetta, teoria antiscientifica da brivido), alcuni hotel rifiutano gli occidentali, dopo venticinque anni per la prima volta mi sento straniero in Thailandia. Preleviamo il massimo possibile al bancomat e ci rifugiamo a Ko Chang Noi, isola nel Mar delle Andamane dove abbiamo amici. Appena arrivati sull’isola i casi in Thailandia si moltiplicano. Se la situazione dovesse peggiorare ancora ipotizziamo d’andare a Phuket, dove vive un vecchio amico e ci sono il Consolato italiano e un aeroporto internazionale. Non ne abbiamo il tempo, d’improvviso anche a Phuket c’è un focolaio, nel quartiere a luci rosse di Patong.

I Thai sono drastici. In un giorno vengono chiusi bordelli, sale massaggi, barbieri, bar e punti di ritrovo in tutto il Paese. Phuket è isolata. Il Bangkok Post titola «La Thailandia non è più sexy».

I casi aumentano ancora. È il primo aprile ma non c’è voglia di scherzare, l’aeroporto di Bangkok è assediato da tremila turisti che cercano d’imbarcarsi su qualsiasi volo per l’Europa. Scatta infine il lockdown: stato d’emergenza, coprifuoco notturno, trasporti pubblici fermi, chiusi ristoranti e negozi, quarantena per uscire dalla provincia.

E così, dopo tante incertezze, siamo bloccati su quest’isola dove non può più entrare nessuno. Siamo al sicuro? Si spera. Siamo in riva al mare, liberi di muoverci per l’isola. I bagni s’alternano a passeggiate tra le piantagioni di gomma nell’interno e trekking nella giungla. Conduciamo una vita alla Robinson Crusoe, perennemente seminudi, con giorni sempre uguali dominati dall’amaca e lunghe passeggiate da una baia all’altra. Raccogliamo i manghi selvatici che cadono dagli alberi, i generosi jackfruit e gli anacardi (ma questi ultimi speriamo di non mangiarli perché impiegano mesi a seccare).

Col lockdown, il virus sembra sotto controllo, a fine aprile dovrebbe finire l’emergenza e cercheremo un volo per tornare a casa, dove – lo sappiamo bene – ci diranno che siamo stati dei privilegiati rispetto a chi ha dovuto sorbirsi la clausura domestica.

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