Ogni anno l’Oxford English Dictionary s’incarica di registrare nuove parole o modi di dire particolarmente rappresentativi della nostra società. Nel 2013 fu Selfie, poi Vape (2014), Emoji (2015), Post-Truth (2016), Youthquake (2017), Toxic (2018), Climate Emergency (2019). Remote Working mi sembra un ottimo candidato per questo 2020.
Per lungo tempo il lavoro a distanza (o telelavoro) è stato l’aspirazione troppo spesso delusa di chi era condannato ad arrancare nel traffico mattina e sera. Poi d’improvviso è diventato la norma per tutti. Casa dolce casa. Anche i viaggi di lavoro sono in crisi nera, meno 90 per cento in Europa con una perdita di 200 miliardi di dollari (Fonte: GBTA, Global Business Travel Association). Spostarsi in sicurezza è ancora possibile, ma costa: i voli privati sono ora il 40 per cento del totale (e il settore va benissimo) rispetto all’8 per cento di prima dell’epidemia. Anche muovendosi col proprio aereo poi nessuno può essere veramente sicuro di non incappare in una quarantena.
Quando stazioni e aeroporti torneranno sicuri, molti preferiranno comunque limitare i movimenti ed evitare spostamenti inutili. Strumenti un tempo riservati agli specialisti – Zoom, Teams, Meet – sono oggi familiari a chiunque e abbiamo scoperto che funzionano benissimo per scambi di idee, riunioni preparatorie, primi contatti eccetera, insomma nella maggior parte dei casi. Ben Baldanza, già amministratore delegato di Spirit Airlines, sostiene che «nel lungo termine mi preoccupano più i viaggi d’affari che le vacanze… Dopo tutto non puoi andare in vacanza con Zoom o Skype».
Lavorare a distanza può essere più sicuro e più comodo ma non dà garanzie di migliori risultati: remote working e smart working non sono sinonimi. Infatti, oltre a spazi adeguati e alla tecnologia serve una diversa mentalità, focalizzata sugli obiettivi e non sulla forma esteriore del lavoro. Proprio perché lavorare bene a distanza non è facile può essere preziosa l’esperienza accumulata in questi ultimi vent’anni dai digital nomad (the wireless generation), ovvero quanti già prima dell’epidemia hanno scelto il telelavoro per poter viaggiare buona parte dell’anno o vivere a lungo in un paese straniero.
Certo, alcuni aspetti della vita di un digital nomad sono peculiari, a cominciare dalla scelta del luogo dove stabilirsi. C’è chi privilegia il clima caldo – i cosiddetti uccelli migratori – o il basso costo della vita, specie all’inizio, quando il reddito non è ancora stabile. Per questo molti statunitensi scendono verso i Caraibi o l’America latina. Altri cercano invece destinazioni dove è possibile divertirsi e socializzare nel tempo libero, sia con locali che expat. Al momento le destinazioni preferite sono Bali in Indonesia o Chiang Mai in Thailandia, ma l’elenco delle possibilità si allunga sempre più, anche senza andare troppo lontano: le repubbliche baltiche, Budapest, Belgrado eccetera (tutte le possibilità su nomadlist.com).
Ovviamente il fuso orario (dovendo lavorare con persone lontane) e la qualità della connessione alla rete sono due elementi da non dimenticare mai. Nessun nomade digitale poi rinuncerebbe alla cittadinanza del proprio Paese d’origine (e alle cure mediche in caso di vero bisogno); da qui una lotta continua per avere un visto turistico abbastanza lungo, anche con qualche uscita temporanea, magari nella stagione dei monsoni. Altri aspetti della vita dei nomadi digitali sono invece comuni a chiunque abbia lavorato a distanza in questi ultimi mesi. Per esempio, questi viaggiatori devono presto imparare a stabilire un confine tra tempo di lavoro e tempo libero, tra disciplina e relax. I nomadi digitali sono molto attenti alla qualità della vita: la lezione di yoga, il bagno in mare, l’incontro nei locali di tendenza non vengono mai sacrificati al lavoro. Per esempio, Anna: «Partirò per Bali perché c’è una community di digital nomad, perché c’è il mare, ma anche perché sono una appassionata di yoga. Penso molto alla componente spirituale di questo viaggio. Per me vuol dire vivere la vita per realizzare quel che si vuole, invece di fare quello che ti dicono sia giusto fare». Nessuno resiste alla tentazione di sollecitare l’invidia altrui (bragging) postando sui social una foto mentre finge di lavorare in spiaggia con un cocktail, ma la realtà naturalmente è ben diversa, come spiega Johannes: «Facciamo quelle foto solo per mostrarle in giro. In realtà la sabbia distruggerebbe il tuo portatile e comunque in spiaggia fa troppo caldo per lavorare seriamente. In realtà a volte mi rifugio in una buia camera d’albergo o in un bar qualunque purché abbia una buona connessione. Quando ho davvero bisogno di lavorare, cerco di rimanere il più lontano possibile dai turisti in modo da potermi concentrare. In effetti quando sei un nomade digitale la produttività può essere una vera sfida». E anche in altri periodi più tranquilli serve comunque una routine abbastanza stabile. Tutte circostanze ben note a chi ha cercato di rimanere efficiente e al tempo stesso rispondere alle legittime richieste di coniugi, figli e animali domestici: nomadi digitali nella propria stanza.