C’è stato un tempo, che corrisponde grosso modo alla seconda metà del secolo scorso, in cui il genere umano viveva con entusiasmo la possibilità di volare nello spazio, concretamente e non soltanto con la fantasia. Poi, con gli ultimi decenni, questa esaltazione si è parzialmente raffreddata, così come i finanziamenti a disposizione. La Stazione Spaziale Internazionale, certo, orbita tutt’oggi con profitto attorno alla Terra; grazie a Space X di Elon Musk la NASA ha potuto far partire di nuovo dal suolo americano un equipaggio a stelle e strisce; ogni tanto spiccano il volo verso l’infinito razzi con materiale esplorativo; e Donald Trump vuole andare su Marte facendo scalo sulla Luna. Da qualche tempo a questa parte è però soprattutto lo stato di salute del nostro pianeta a catalizzare l’attenzione, e lo sguardo sembra essere tornato a essere rivolto verso il basso piuttosto che verso l’alto più profondo. Dove comunque, ogni giorno e con poco clamore, qualcosa succede e qualcosa viene osservato. Perché non abbiamo mai smesso di guardare «fuori» e di stupirci.
Ad inizio febbraio le agenzie di stampa e i vari portali di informazione hanno lanciato una notizia gustosa per gli amanti delle storie spaziali. Il radiotelescopio del CHIME (Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment) situato sulle colline della British Columbia del sud ha identificato un segnale che ha suscitato un certo interesse. Appartiene al genere FRB (Fast Radio Burst), ossia lampi radio di enorme energia che durano millesimi di secondo, captati per la prima volta nel 2007 e tuttora di natura sconosciuta. La particolarità di quanto riferito recentemente è che questa volta il segnale si è manifestato in modo regolare, per un periodo che va dal settembre 2018 all’ottobre scorso; sull’arco di un anno si è fatto vivo ogni 1-2 ore per quattro giorni consecutivi, sparendo poi per 12 giorni e tornando in seguito a manifestarsi di nuovo con la stessa modalità ciclica. Secondo gli scienziati questo FRB proviene da qualche parte 500 milioni di anni luce da noi, certamente fuori dalla Via Lattea, forse da una galassia a spirale. Di cosa si tratta esattamente? La domanda è senza risposta. Perché si è palesato in modo regolare? Mistero assoluto, condito però in questo caso anche da un pizzico di curiosità che sconfina nel fantascientifico: e se fosse un messaggio da una civiltà aliena?
A frenare la fantasia ci hanno pensato per primi proprio i ricercatori del CHIME, spiegando che il segnale è stato originato con un’energia tra le più forti dell’universo, dunque che forse nemmeno degli E.T. tecnologicamente avanzatissimi potrebbero gestire. È significativo che la notizia sia stata ripresa anche dal sito del SETI Institute di Mountain View, in California, secondo cui l’origine del fenomeno non sarebbe aliena, bensì potrebbe essere da ricondurre all’orbita periodica di una stella attorno a un buco nero, o viceversa: al SETI sono prudenti, pur masticando l’argomento quotidianamente.
Già. Perché la loro opinione è importante? Ma anzitutto, cos’è «SETI»? Partiamo dal significato dell’acronimo: «Search for extra-terrestrial intelligence», con la missione dichiarata quindi di ricercare vita intelligente al di fuori della Terra. Il progetto è stato concepito e costruito a partire all’incirca dal 1960, nel pieno della corsa allo spazio; fin dall’inizio l’idea, che stuzzicò anche l’interesse dei sovietici e che nei decenni ottenne a più riprese il sostegno della NASA, era quella di scandagliare il cielo alla ricerca di segnali dallo spazio. In questi sessant’anni il progetto non ha mai difettato di entusiasmo, nonostante il clima attorno all’esplorazione dell’universo sia cambiato. Oggi il SETI Institute fa capo all’Allen Telescope Array (ATA); è in piena attività, perché la tecnologia odierna ha raggiunto un livello tale per cui è possibile tenere d’occhio l’intero cielo simultaneamente.
Ecco che i dati raccolti sono moltissimi, difficilmente elaborabili da un’unica unità di analisi. Si è sviluppato dunque un progetto complementare a quello di Mountain View, e che in un ventennio è riuscito a coinvolgere oltre 5 milioni di persone (astrofili amatoriali) in centinaia di paesi, Svizzera compresa. Lanciato nel 1999 e gestito dall’Università di Berkeley, si chiama SETI@home, ed è una sorta di supercomputer virtuale in grado di analizzare «le chiacchiere» dell’Universo: in sostanza, l’esercito di volontari ha prestato la potenza del proprio computer domestico nei suoi momenti di inattività per setacciare i dati raccolti da uno dei tanti orecchi (o radiotelescopi) puntati verso l’infinito. Agli appassionati è stata offerta la possibilità di diventare una maglia di una rete potenzialmente infinita nella quale un giorno potrebbe restare impigliato un messaggio dall’infinitamente lontano. SETI@home è stato interrotto alla fine dello scorso marzo: «ibernato», hanno spiegato i promotori, almeno nella sua parte aperta al pubblico. In sostanza, i dati sono moltissimi, ora occorre fare una pausa per poterli analizzare. Prosegue invece il progetto Breakthrough Listen: avviato nel 2016 e pure basato al Berkeley SETI Research Center, il lavoro di setaccio è tuttavia per ora più «casalingo», nel senso che al centro delle ricerche vi sono scienziati, laboratori e potenti algoritmi. Ma lo scopo è sempre quello.
Finora – tranne un segnale rilevato nel 1977 dal radiotelescopio Big Ear, battezzato «Wow!» e rimasto senza una spiegazione – sulla Terra non è arrivato nulla che possa far ragionevolmente pensare a un tentativo di comunicazione fra galassie. La domanda «siamo soli nell’universo?» non ha ancora una risposta. Eppure, come ha provato anche SETI@home, l’essere umano non ha nessuna intenzione di smettere di cercare.