La crudeltà felice di Iacuzzi

Paolo Fabrizio Iacuzzi torna alla poesia con una raccolta edita da Bompiani dal titolo Consegnati al silenzio, Ballata del bizzarro unico male e naturalmente il libro è come se prendesse per mano i precedenti nel loro comune denominatore: passare e ripassare sulla vita propria e degli altri, sempre alla ricerca di nuovi punti di significazione. E difatti Iacuzzi, come un amanuense, tratteggia con rara perfezione d’immagine, le tante esistenze conosciute e sconosciute, i loro punti di caduta, talvolta quel loro rialzarsi a stento dal fumo di ogni giorno.
Col suo pennino corregge e ricorregge paziente la curva ortografica delle vite che va segnando, depurandole di volta in volta da certe sovrastrutture linguistiche per recuperarle finalmente ad una pienezza di senso. E rinominare esistenze lontane, con accento poetico, vuole dire averne cura definitivamente, dando ad esse lo stigma di una presenza che ancora oggi può valere, dirci sui giorni che sono e che saranno.
Naturalmente la scrittura di Iacuzzi, sappiamo bene, è stata sempre mossa da immagini retrostanti e assieme prospettiche; si addensano difatti nella pagina figure memoriali dentro quadri crudi e amari ma dai colori, potremmo dirlo, felicemente rinascimentali. Ecco il cuore di questo libro: immettere nell’abisso della vita, nei suoi neri flussi, la corrente dell’arte e attraverso essa farne, di tutto questo patire, un punto di riscatto: «… / …L’ansia di comprensione / portare a compimento una missione. Alzarsi al cielo / o abbassarsi nelle viscere delle terra. Immedesimarsi / nell’amore. Diventare arte… / …». Umilmente il poeta vi riesce, toccato da illuminazioni lontane e vicine.

A sfogliare le pagine difatti, è come se risuonassero le parole millenarie del Qoelet sotto diversa forma certo, ma piene di quello stesso spirito: vanità delle vanità, tutto è vanità; e Iacuzzi fa sentire il loro boato escatologico proprio mettendo in fila, quasi come incipit del libro, il ventaglio famigliare toccato da alterne fortune ma alla fine macinato dal silenzio: «… / Qui riuniti babbo nonno figlio nipote. Mozzi nomi / d’organi virus e batteri… // Uno reduce da guerra mai finita. Uno da una ragioneria / di conti a contadino… / Uno compromesso in vita dalla poesia. A spiedo tutti / consegnati al tempo dei relitti… / …». E il vaticinio poetico di questi nostri mesi oscuri, vediamo, scorre davvero forte, quando tra le pagine si trovano i virus acquattati negli incunaboli degli organi, che sfiniscono l’uomo disteso a languire nelle case di cura, e il luogo di cui qui si parla è lo Spedale del ceppo di Pistoia dalla storia plurisecolare.

Ma Iacuzzi riesce a portarci lontano, proprio partendo da una quotidianità che risuona sempre di memoria, mai, quindi, consegnata al silenzio, ma alla mirifica immaginazione. Dunque l’adiacenza del poeta al reale è il punto di forza. Il suo continuo ritornare dentro certe case, nelle nature, quel pellegrinare di costa in costa, richiama tempi e storie altre: «Mentre guarda il cielo di settembre / quello che lo sovrasta nei pensieri / fatti di nuvole dentro le tele di Piero / … // Mentre pensa rivolgendosi ora agli olivi / e nei praticelli risale appena a mezza costa. / Nella valle delle cento storie di peste».

E così egualmente i carteggi ritrovati, non sappiamo quanto casualmente, tra le veline di carta, hanno sottotraccia meta eventi che propagano come un’onda i dolori del mondo: «Natale. Chi erano i corrispondenti? Fratello e sorella / distanti mille miglia. / Le mani legate dietro la schiena. / Emersi dalla tomba etrusca dentro il Novecento. Statuette / venute da lontano per ricordarci i nostri affetti recisi // …». Ecco, Iacuzzi fa dei tanti oggetti, delle tante nature e case sgretolate, la simbologia per una continua interpretazione del reale.

E così ancora le pene personalissime nel capitolo centrale Cuore e pietra, si mischiano con quelle che hanno riguardato una comunità più grande, devastando tante vite e declinando ogni amore, nella più terribile idea di peccato: «Ruvida sveglia delle sei. La corsa in fretta allo spedale / …Ogni volta ricordarsi / di essersi ammalati così presto. Mentre altri tentano / il suicidio e sperperano la vita. Non tutti noi possiamo / resistere alla realtà che è coatta… / …».

Ma la morte è in agguato, ghermisce l’uomo di ogni epoca affaccendato ad allontanarla. Sì perché Iacuzzi, come abbiamo ricordato, costruisce nel libro una diacronia d’immagini, dove sempre la signora nera aleggia, col suo continuo andirivieni, nei padiglioni dello Spedale; a volte prende, a volte rimanda la presa. Ecco allora che la parola del poeta, nel bellissimo capitolo Il padiglione verde, è lì a costeggiare il dolore dei malati di oggi e di ieri nel reparto emodialisi. Il luogo di cura diviene quindi uscio che si apre e chiude sulla precarietà di ogni esistenza, sul suo condensato di amarezza e rara felicità, di lotta anche dell’uomo di scienza per una sua prorogatio seppur limitata: «… / …Quando e come mai // un giorno arriva il male. E porta via il passato / prima del futuro. Con le pasticche pensaci / solo sopravvissuti… / …».

E le parole alla fine del libro somigliano sempre più a quadri, quando ripercorrono in quartine e terzine le sette storie del fregio in ceramica invetriata posto sopra il portico ed eseguito a partire dal 1525 da Santi Buglioni su commissione dello spedalingo e monaco fiorentino Leonardo Buonafede; sette stazioni illustranti le opere di misericordia del pensiero cristiano delle origini, che poi titolano anche i capitoli finali del libro: Vestire gli ignudi, Alloggiare i pellegrini, Visitare gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti, Dar da mangiar agli affamati, Dar da bere agli assetati.

È come se questo luogo di cura, fondato settecento anni or sono, tornasse a popolarsi di umana caritas, laica prima che cristiana: «Agita bene l’orina nell’ampolla bianca. / Dice che questo ti farà guarire e ti alzerai / dal letto per puro miraggio… / … // Quando è il momento di propinare il filtro / uno piega il capo e aspetta che venga poi / dimesso da questa soffe-renza… / …».

E Buonafede, una delle grandi guide dello Spedale, sembra ancora lì, sfumato nei colori che il tempo sfarina, ad indicare con la sua pietas la strada per una esistenza esemplare. Ecco, Paolo Fabrizio Iacuzzi ci ricorda le vie che l’arte sempre percorre, partendo da frammenti sepolti, così parlanti però per la poesia che sempre è pronta a riesumarli; ecco, Consegnati al silenzio sembra sussurrarci a fior di lettera, quelle cose vaganti e lucenti che fondano la vita e che gli altri saperi si sforzano inutilmente di spiegare con la loro scienza esatta.

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