Pochi soldi per la scuola

Chissà se l’onda del coronavirus servirà per far capire che la scuola e la formazione sono fra i capisaldi della nostra società? In particolare la scuola dell’obbligo, che in questi mesi è stata messa a dura prova, dovendo introdurre un insegnamento a distanza grazie a supporti informatici. L’emergenza ha stravolto il sistema scolastico, ha spaventato gli allievi e ha scombussolato i docenti e le famiglie. Il bilancio, pur provvisorio, è però positivo: la scuola dell’obbligo a distanza ha garantito un insegnamento con forme diverse e il sistema scolastico ha dimostrato capacità di adattamento ed elasticità. Ma l’essenza della scuola dell’obbligo è l’aula, in cui si svolge la scuola viva, che garantisce le relazioni fra gli allievi e con i docenti, che non discrimina i ragazzi e non è solo apprendimento di nozioni.
Il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport ha pubblicato, prima del coronavirus, l’opuscolo Scuola ticinese in cifre che, in una sessantina di pagine, illumina sullo stato del nostro sistema scolastico. Le statistiche vanno maneggiate con cura per cercare di tradurre i numeri in concetti, utili in questo caso per capire come funziona il settore più importante per lo sviluppo di una società democratica. La scuola dell’obbligo, in particolare, deve offrire le migliori condizioni d’istruzione ed educazione che poi si riflettono sulla qualità della nostra società. Le scuole superiori, formando personale qualificato, garantiscono opportunità di sviluppo e di benessere a tutto il Paese.
Le cifre della scuola ticinese rivelano, soprattutto, che il Cantone è spilorcio e si classifica agli ultimi posti in Svizzera per quanto riguarda la spesa per la formazione, sia nei confronti del PIL (prodotto interno lordo), sia nei confronti della spesa pubblica complessiva. La spesa per l’educazione ammontava a 508’726 milioni di franchi nel 1990 (18,3% della spesa pubblica) e a 1’139’352 milioni nel 2016 (23%). Ciò equivale al 23esimo posto della classifica nazionale, davanti a Vallese, Giura e Grigioni. Il responsabile del DECS Manuele Bertoli definisce questo dato il punto più critico dal profilo politico.
Dalla metà degli anni Novanta il Ticino ha creato l’Università (USI) e la Scuola Universitaria (SUPSI), due voci di spesa non indifferenti. Quindi l’investimento per gli ordini di scuola inferiori è quasi rimasto al palo. Tolti i contributi cantonali per la formazione universitaria, saremmo all’ultimo posto nel confronto intercantonale.
«La questione delle risorse è un punto politicamente importante, – sostiene Manuele Bertoli. – Va detto che il grosso della spesa dell’educazione fa riferimento alla spesa salariale e, siccome il Ticino ha stipendi decisamente più bassi della media nazionale, questo impatta anche sulla spesa dell’educazione. Per quel che riguarda la distribuzione delle risorse interna al settore educativo, va rilevato che l’aumento di quelle dedicate a USI e SUPSI dalla metà degli anni 90 al 2010 è congenito alla prima fase della loro vita ed alla scelta dei miei predecessori al DECS di preservare i due atenei da misure finanziarie anche in periodi difficili. Dal mio arrivo al Dipartimento, tenuto conto che USI e SUPSI avevano ormai 15 anni, questa “esenzione” è stata abbandonata e l’impegno è stato prodotto nel cercare di salvaguardare tutta la spesa educativa dalle misure di risparmio realmente incisive, cosa che è parzialmente riuscita, se si pensa che, in periodi di inflazione zero per scuole medie, medie superiori, professionali e speciali il Ticino, tra il 2013 e il 2019 è passato da 505 a 537 milioni (+32), mentre per USI, SUPSI e DFA (Dipartimento formazione e apprendimento), è passato da 79 a 94 milioni (+15). Alcuni nuovi progetti sono andati avanti e hanno comportato anche aumenti di spesa, l’affiliazione all’USI di IRB e IOR, la nuova Facoltà di scienze biomediche. Altri purtroppo si sono fermati, come “La scuola che verrà”, impedendo l’afflusso di nuove risorse. Per aumentare l’investimento nella formazione bisogna avere progetti di ammodernamento del sistema formativo e poi raccogliere maggioranze politiche a loro sostegno: le posso assicurare che sul fronte dei buoni progetti non abbiamo alcuna difficoltà, il vero problema, soprattutto per quel che riguarda la scuola dell’obbligo, sono le maggioranze politiche».
Certo, mettere in piedi USI e SUPSI – di cui tutto il Cantone può essere orgoglioso – ha richiesto investimenti cospicui, ma anche gli aumenti di spesa recenti sono andati, proporzionalmente, piuttosto agli istituti universitari, con un aumento del 19% circa, e meno alle altre scuole, solo il 6,5% circa. È indubbio che la scuola dell’obbligo, in particolare, sia stata sacrificata. Malgrado ciò, le maggioranze in Parlamento perseverano nelle politiche di risparmio nel campo della formazione, tant’è che per ottenere 17 milioni di franchi per una piccola riforma, come la riduzione del numero degli allievi nelle classi delle elementari, si è posta come condizione l’accettazione degli sgravi fiscali, mentre dovrebbe essere una spesa corrente.
Un altro punto interessante messo in luce dalle statistiche riguarda la suddivisione degli allievi del secondo biennio di scuola media in rapporto alla frequenza dei corsi attitudinali o base. Chi frequenta i corsi attitudinali, una volta chiamati livelli A, sono in maggioranza le ragazze (61,9%), gli svizzeri (63,8%) e gli allievi di lingua madre italiana (61,8%). A frequentare entrambi i corsi base sono invece tendenzialmente i maschi (27,8%), gli stranieri (38,8%) e gli allievi di lingua madre non italiana (34%).
La scuola media, con la differenziazione dei corsi, rivela perduranti differenze sociali e personali. D’altra parte su questo tema ci sono pareri discordi. Come pensa di intervenire il DECS?
«È intenzione del mio Dipartimento – precisa il Direttore – tornare su questo tema, che era già affrontato dal progetto “La scuola che verrà” ma che, dopo il voto del 23 settembre 2018, non ha potuto entrare nel vivo dei modelli di superamento dei livelli previsti. Ho sul mio tavolo alcune ipotesi di lavoro su cui ci concentreremo nei prossimi mesi. I dati oggettivi sono molto chiari nell’indicare i livelli come problematici, ma non si può nascondere che esiste in Ticino, tra i politici ma anche tra i docenti, una resistenza a procedere in questa direzione da parte di chi confonde il sistema dei livelli con un sistema che premia il merito degli allievi. Purtroppo le analisi ci dicono invece che sono piuttosto i meriti “sociali” dei genitori a essere premiati, cosa che evidentemente per la scuola non può essere accettabile».
È una storia vecchia quella delle differenze sociali che si ripercuotono sui risultati scolastici. Franco Lepori, il padre della scuola media ticinese, lo diceva già nel 1967: «Una larga parte della popolazione scolastica non riesce ad attualizzare compiutamente il suo potenziale intellettivo; le scelte scolastiche-professionali sono in gran parte condizionate da fattori extra-intellettuali, ciò che limita considerevolmente il grado di democrazia del nostro paese». E, citando il biologo Jean Rostand, Lepori rincarava: «I buoni geni delle classi sociali inferiori hanno difficoltà a salire alla superficie, mentre i cattivi geni delle classi superiori non hanno troppe difficoltà a mantenervisi». «Anche in Svizzera – scrive la docente SUPSI Giovanna Zanolla in Scuola a tutto campo – sussiste una relazione diretta tra origine sociale familiare e istruzione, e la letteratura scientifica internazionale evidenzia che tra i fattori che compromettono l’equità rientrano in molti casi anche il trascorso migratorio, il genere e la zona di residenza».
Altro dato rilevante riguarda le differenze di genere. La netta maggioranza dei docenti delle scuole pubbliche sono donne (75,4%). Come valuta questo dato il responsabile della scuola ticinese? Come si può rendere più attrattiva la professione del docente?
«Ogni squilibrio può nascondere una criticità, – spiega Bertoli – anche se non è necessariamente sempre così. Non sono quindi in grado di dire se il dato sia da leggere per forza come un problema, ma intuitivamente credo che sarebbe bene che l’equilibrio tra docenti donne e docenti uomini possa essere migliorato. Mi pare piuttosto chiaro che la situazione attuale che vede le donne essere sempre più presenti nell’insegnamento dipenda da due fattori, da un lato il netto aumento negli ultimi lustri del numero di ragazze che accedono agli studi universitari, dall’altro l’assoluta imbattibilità della professione di docente in termini di conciliabilità lavoro-famiglia rispetto a qualsiasi altra professione. Quanto all’attrattività dell’insegnamento, mi permetto di segnalare come, dalla mia entrata in carica a oggi la situazione salariale, soprattutto al primo impiego, sia ben migliorata: i salari iniziali sono di franchi 77’000 annui lordi, per un docente di scuola elementare o di scuola dell’infanzia con refezione, e di franchi 87’000 per un docente di scuola media, tant’è che non registriamo problemi di “vocazioni”, salvo per alcune discipline specifiche alla scuola media».
Il numero delle donne che studiano è aumentato molto. Dal 1980 al 2016 il tasso di maturità liceale e di commercio, nei confronti della popolazione complessiva della stessa età, è rimasto sostanzialmente invariato per gli allievi maschi, passando dal 22 al 23,2%. Per le femmine, invece, c’è un incremento notevole, passando dal 17 al 27,3%.
Le bocciature rimangono un cruccio per gli allievi liceali e per le loro famiglie. Alla fine del primo anno di liceo o di commercio viene fermato il 24% degli allievi. Un dato che non si discosta molto nel corso degli ultimi decenni. In un articolo degli anni Novanta, Franco Lepori citava un professore che così si esprimeva, nel 1964: «Attualmente il livello intellettuale, di volontà di lavoro e di coscienza professionale degli studenti dello scientifico è incredibilmente basso. Io ho classi dove su 30 allievi ci sono due allievi degni veramente della scuola superiore che frequentano; tutto il resto è una zavorra fenomenale». Gli studenti liceali erano allora 310. Il tasso di bocciatura e di abbandoni si aggirava attorno al 20%. Che dire? Selettività per dar senso ai licei?
Le polemiche attorno all’apertura e alla chiusura delle scuole durante la pandemia sono significative: il dibattito sulla scuola diventa facilmente politico. Il Movimento della scuola critica il Dipartimento e chiede di ridare voce all’insegnante, che sarebbe estraniato dalle politiche scolastiche: «È mortificata la matrice intellettuale e progettuale della professione, l’insegnamento è progressivamente privato di autorevolezza e prestigio sociale, l’autonomia didattica è piegata a mera operatività». Fra i partiti di centro e di destra non mancano le critiche nei confronti di un Dipartimento che ha proposto, senza successo, una riforma sostanziale della scuola media. Nel mezzo, l’impavido Direttore del DECS, che afferma «che c’è ancora diverso lavoro da fare per rendere il nostro sistema formativo all’altezza delle sfide alle quali è confrontato». E ora, per la scuola, si aggiunge anche il rischio di essere messa sotto pressione da un invisibile virus.

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