Una Chernobyl del petrolio

by Claudia

Disastro ecologico - La rottura di una cisterna fa defluire ventimila tonnellate di gasolio nei fiumi Daldykan e Ambarnaya, nel nord della Russia

Acque rosse in fiumi rossi, con le rive coperte di erba rossiccia e pesci morti dalle squame rossastre. Un paesaggio da film di fantascienza postapocalittico, ma non sono effetti speciali: le acque dei fiumi Daldykan e Ambarnaya sono diventati rosso sangue a causa di 20 mila tonnellate di gasolio che hanno formato una macchia talmente grande da essere stata rilevata dal satelliti dallo spazio. La perdita, originata il 29 maggio scorso da una cisterna di una centrale di riscaldamento di Norilsk, nell’Estremo Nord russo, è stata proclamata dagli esperti di ecologia la peggiore sciagura ambientale nell’Artico, paragonata da Greenpeace Russia al disastro della petroliera Exxon Valdez al largo dell’Alaska, nel 1989. Secondo le stime degli esperti, ci vorranno almeno sei mesi per raccogliere il gasolio dall’ambiente, e circa dieci anni prima che la natura della zona colpita possa rimarginare le ferite. Sempre che la macchia di gasolio – per il momento arginata da galleggianti e reti – non si sposti con la corrente verso il mare di Kara, con il rischio potenziale di intossicare le acque dell’oceano Glaciale Artico per diversi anni.

Il governo russo ha già proclamato il regime di «emergenza ecologica federale», ma il disastro ecologico, come spesso accade in Russia, è diventato subito un disastro politico. Le TV nazionali hanno trasmesso la videoconferenza (in Russia sono ancora in parte in vigore le limitazioni dovute all’epidemia di Covid-19) in cui un Vladimir Putin furioso ha chiesto al governatore della regione di Krasnoyarsk Alexandr Uss se «ha problemi di salute mentale» e l’ha accusato di aver «saputo del disastro dai social media». L’incidente, avvenuto il 29 maggio scorso, è stato infatti registrato dal ministero per le Emergenze soltanto il 1. giugno, quando non solo le foto e i filmati dei fiumi rossi circolavano già sui social network russi, ma perfino il WWF si era attivato per invocare l’intervento di Mosca senza il quale non sarebbe stato possibile intervenire efficacemente in una zona remota e difficilmente accessibile come quella di Norilsk. Ma fino al 3 giugno a lottare contro la macchia che si stava espandendo c’erano soltanto le squadre di pronto intervento del Norilsk Nickel, il colosso industriale cui appartiene la cisterna difettosa, e quelle del municipio. Il Comitato per la sorveglianza sulla natura (Rosprirodonadzor) federale scopre in effetti il disastro dalla Rete, e solo una settimana dopo l’emergenza diventa oggetto di una discussione nel governo, che dopo l’ordine di Putin invia i soccorsi necessari nell’Artico.

Uno scenario che ha avuto inquietanti similitudini con i silenzi su Chernobyl, dopo che la popolare serie della HBO ha ricordato a tutto il mondo il disastro nucleare che il Cremlino aveva cercato di rendere nascosto. Una prassi comune anche nella Russia contemporanea, soprattutto quando ci vanno di mezzo le compagnie petrolifere, che temono di dover pagare i danni, e le autorità dello Stato che possono imporre il silenzio ai responsabili ambientali e ai media. Ma nel caso di Norilsk, la ricostruzione del sito indipendente Meduza ha svelato più che altro una catena di comando estremamente restia a dare brutte notizie ai superiori: l’allarme sulla fuga di gasolio viene lanciato tempestivamente sia dai vigili del fuoco che dai responsabili locali per le emergenze, ma si blocca al livello del governatorato e del ministero federale. Il governatore Uss spiega a Putin di non aver avuto notizie sulla presenza della macchia di gasolio e scarica la responsabilità sulle autorità cittadine (il sindaco di Norilsk viene indagato per negligenza), il ministero per le Emergenze sostiene di non essere stato informato, e tutti scaricano la colpa su qualcun altro. Il governatore poi si guadagna un secondo rimprovero dal presidente russo, quando propone di eliminare la macchia di gasolio incendiandola, incurante dell’impatto inquinante di un rogo di dimensioni simili.

La rabbia di Putin è stata utilizzata anche a scopi politici, per distrarre l’opinione pubblica dalla gestione tardiva e maldestra dell’epidemia di Coronavirus, e restituire ai russi l’immagine di quel presidente decisionista di cui avevano sentito la mancanza nelle settimane di lockdown, importante soprattutto in vista del voto sugli emendamenti costituzionali di fine giugno. Un’operazione facile anche perché la centrale di riscaldamento da cui è partita la fuga appartiene a una società privata, il Norilsk Nickel, gigantesco consorzio al primo posto al mondo per estrazione di nichel e palladio, di proprietà dell’oligarca Vladimir Potanin, molto più vulnerabile alle critiche del capo di Stato di quanto lo sarebbe stato in una situazione analoga un consorzio statale come Gazprom o Rosneft. Anche il leader dell’opposizione Aleksey Navalny, in un raro momento di sintonia con il Cremlino, ha accusato Potanin e il suo ex socio Mikhail Prokhorov di aver preferito spendere soldi in squadre di basket e ville invece che nella sicurezza ambientale della città da cui venivano le loro ricchezze.

Potanin – che è stato spesso in cima alla lista degli uomini più ricchi della Russia – ha reagito annunciando un taglio dei dividendi della sua società a favore di un maggior investimento ambientale, una decisione che gli è valsa una discesa dei titoli del Norilsk Nickel nelle piazze finanziarie di Londra e Mosca. I responsabili locali della compagnia hanno attribuito la colpa dell’accaduto al cedimento del permafrost sotto la cisterna, una conseguenza del riscaldamento globale. Il problema di Norilsk, che resta il posto più inquinato della Russia e uno dei dieci più inquinanti del pianeta, è però di gran lunga precedente. Il comunismo sovietico, con il suo gigantismo industriale e le tecnologie arretrate, ha lasciato in eredità decine di emergenze ecologiche drammatiche, in città-fabbriche come Norilsk, dove le emissioni solforose avevano reso la bronchite cronica una malattia comune anche ai neonati. Subentrato allo Stato con la privatizzazione degli anni 90, Potanin ha investito miliardi nella riduzione del contenuto di zolfo nell’aria, una priorità per la città e i suoi impianti. Ma anche tutto il resto è obsoleto e fatiscente: la cisterna dalla quale è fuoriuscito il gasolio era stata costruita nel 1985 e una revisione del 2018 ne aveva chiesto la messa in sicurezza. L’emergenza potrebbe riguardare praticamente qualunque impianto in Russia, dove incidenti con grave impatto ambientale sono all’ordine del giorno. «Quanto accaduto è comune a tutte le società con vecchi attivi industriali sovietici, non vogliono investire nella modernizzazione», ha detto al «Financial Times» Evgheny Shvartz, ex dirigente del WWF e ora membro indipendente del consiglio di amministrazione di Norilsk Nichel.

Tra gli emendamenti proposti alla Costituzione da Putin – oltre a quello principale che dovrebbe permettergli di rimanere al Cremlino per altri 16 anni – c’è l’obbligo per il governo di proteggere l’ambiente. L’ecologia resta però una preoccupazione di pochi, con sensibilità sulla raccolta differenziata e le cannucce di plastica che riguardano quasi esclusivamente i giovani delle grandi città, mentre la crisi economica spinge in secondo piano considerazioni di tipo ambientale. A maggio, il più grande produttore di automobili russo, VAZ, si è ritirato dal mercato europeo, in quanto le sue automobili – commercializzate in Europa sotto il marchio Lada – sono ormai incompatibili con le regole ambientali dell’Ue, e l’azienda non ha alcuna intenzione di investire per renderle meno inquinanti.