Più che una battaglia, una rissa in piena regola, combattuta con sassi e bastoni, che ha lasciato sul terreno una ventina di soldati indiani e un numero imprecisato di militari cinesi. Secondo fonti dell’intelligence americana i cinesi, tra morti e feriti, sarebbero una quarantina. Pechino, in nome della trasparenza che da sempre contraddistingue il suo governo, non conferma né smentisce. A provocare tante vittime da entrambe le parti sarebbe stato, in realtà, un cedimento del terreno. Su questo, almeno, le versioni ufficiali di Delhi e di Pechino coincidono. Per il resto, al netto delle accuse reciproche per aver dato il via alla battaglia, dopo aver fatto sfoggio verbale di muscoli i due governi stanno quietamente gettando acqua sul fuoco. Non si sa per quanto tempo ancora.
Tramontata del tutto l’era del «hindi-chini bhai-bhai» (gli indiani e i cinesi sono fratelli) tanto caro a Nehru, e tramontato anche il famoso «spirito di Wuhan» dal luogo dei distesi colloqui di un paio d’anni fa tra Xi Jinping e Narendra Modi, i rapporti tra le due potenze asiatiche sembrano per il momento dominati, come in tutto il resto del mondo, da un altro spirito di Wuhan: quello del Coronavirus. Da quando mezzo mondo è in lockdown, difatti, e si accusa il governo cinese di aver nascosto il virus e i relativi dati, Pechino è sempre più aggressiva, sia militarmente che a livello diplomatico e verbale. La teoria del «wolf warrior», del guerriero-lupo, è una recente creazione dell’ineffabile Xi e del suo ufficio propaganda. I guerrieri lupi agiscono sui social media, nelle organizzazioni internazionali e anche sul campo. Hong Kong, in violazione ai trattati internazionali, è stata di fatto ridotta a una provincia dell’impero soggetta allo stesso regime dittatoriale del resto della Cina. In aprile i cinesi hanno affondato un peschereccio vietnamita, e si sono annessi, dichiarandoli «distretti amministrativi» cinesi, due arcipelaghi nel Mar cinese meridionale che fanno in realtà parte del Vietnam. Pechino ha forzato la mano all’Organizzazione Mondiale della Sanità non soltanto costringendola a dichiarare fino a fine gennaio che il virus di Wuhan non si trasmetteva tra esseri umani ma anche, per tornare all’India, a pubblicare il 29 aprile scorso una mappa che mostra parti dell’Arunachal Pradesh (nel nord-est dell’India), del Jammu&Kashmir e del Ladakh (nel nordovest) come territorio cinese. Perché la storia infinita della contesa tra India e Cina per i territori di confine viene in realtà da molto lontano.
Ai tempi dell’Impero britannico, i confini tra India e Cina erano delimitati rispettivamente dalla «linea Johnson» e dalla «linea Mac Mahon». Semplificando di molto: alla nascita dell’India, la Cina si rifiutava di riconoscere la linea McMahon e la linea Johnson, riconosciute invece come confini permanenti dalla neonata nazione. Per i cinesi il confine stabilito dalla linea McMahon correva molto più a sud, e includeva per motivi di «appartenenza naturale e culturale» l’Aksai Chin tra i territori controllati da Pechino.
L’Aksai Chin, ai tempi, faceva parte dello Stato indipendente del Kashmir che comprendeva gli attuali territori del Jammu and Kashmir e del Ladakh, che sono adesso sotto la giurisdizione indiana il Gilgit Baltisan e l’attuale Kashmir pakistano controllati da Islamabad più la regione dell’Aksai Chin, che secondo l’India è parte del Ladakh, e infine la valle di Shaksgam, che era parte del Baltisan e che è stata ceduta alla Cina dal Pakistan nel 1963. Dopo una serie di scaramucce tra i due paesi, le tensioni tra India e Cina sfociarono nel 1962 in una guerra nota come la «guerra dei Trenta giorni». Materia del contendere l’Aksai Chin e l’odierno stato dell’Arunachal Pradesh, ma anche lo Stato del Sikkim (situato fra Nepal e Bhutan) che era ai tempi indipendente. Il Sikkim è entrato a far parte nel 1975 dell’unione indiana, ma i cinesi ne hanno riconosciuto l’annessione, a denti stretti, solo nel 2005. I cinesi si ritirarono dall’Assam (che a quel tempo comprendeva l’Arunachal Pradesh) ma non dall’Aksai Chin nel novembre del 1962, dichiarando un cessate il fuoco unilaterale. Tra le due nazioni non è mai stato ufficialmente firmato un trattato di pace ma soltanto un armistizio, e la Cina continua a rivendicare l’Arunachal Pradesh mentre l’India considera ancora l’Aksai Chin come territorio indiano.
I 3488 chilometri di confine tra Cina e India sono al momento regolati dalla cosiddetta Line of Actual Control (Lac): un confine provvisorio che i due paesi interpretano ciascuno a suo modo. Tra India e Cina, da allora, sono intercorse circa ventidue tornate di colloqui tra rappresentanti speciali dei due paesi per cercare di risolvere le dispute sui confini. O, almeno, i problemi più scottanti al riguardo. Ma i risultati, fatti alla mano, non sono mai stati particolarmente brillanti. La percezione che i due paesi hanno della Lac, e quindi dei rispettivi territori, non è, per usare un eufemismo, uniforme. Scaramucce e tensioni sono piuttosto frequenti e sfociano, a volte, in incidenti ad alto rischio.
La situazione è peggiorata lo scorso anno quando l’India ha abrogato l’articolo 370 della Costituzione smembrando il Kashmir in due territori dell’Unione: il J&K e il Ladakh. E difatti, all’indomani dell’abrogazione dell’articolo 370, la Cina dichiarava che «La recente revisione unilaterale delle leggi interne da parte indiana continua a minare la sovranità territoriale cinese: il che è inaccettabile, e non riveste alcun effetto» rispondendo a dichiarazioni da parte indiana per bocca del ministro degli esteri Amit Shah secondo cui, invece: «Il Kashmir è parte integrale dell’India, non ci sono dubbi in proposito. E quando parlo di Kashmir, non mi riferisco soltanto al Jammu and Kashmir ma anche al Kashmir occupato dal Pakistan e all’Aksai Chin, che del Kashmir fanno parte».
L’area interessata dall’attuale conflitto, che va avanti in realtà da una quindicina di giorni, si trova proprio in questa zona ed è di importanza strategica vitale per la Cina: si tratta infatti di una striscia di terra, controllata dall’India, che si incunea tra l’Aksai Chin e il Baltisan. Quella fetta di territorio indiano è, in pratica, l’unico impedimento a un collegamento militare e commerciale diretto nella zona tra Cina e Pakistan. E in Pakistan, è importante non dimenticarlo, la Cina ha investito miliardi di dollari nel China-Pakistan Economic Corridor, che fa parte del più ambizioso progetto della Belt and Road Initiative. L’India dal canto suo considera il China Pakistan Economic Corridor (Cpec) totalmente illegale perchè costruito per ampi tratti in territorio rivendicato da New Delhi: l’Aksai Chin, per l’appunto, e il Kashmir pakistano. E considera la più ampia Belt and Road Initiative soltanto un mezzo per occupare anche militarmente i territori coinvolti. Secondo l’India, Xi Jinping avrebbe adesso intenzione di rimuovere il «cuneo» indiano tra Cina e Pakistan occupando i territori a nord del lago Pangong: mossa che non soltanto faciliterebbe la connettività tra Pakistan e Cina, ma impedirebbe anche definitivamente l’accesso indiano all’Afghanistan e all’Asia centrale.
La mossa di Modi in Kashmir ha cambiato, e non di poco, le dinamiche geopolitiche della regione. E la Cina, tenendo conto delle politiche di stampo imperialistico-coloniale messe in atto ormai da un pezzo, non intende aspettare una eventuale mossa di New Delhi. Continuando ad accusare gli indiani di «provocazioni», ha fatto la prima mossa. È improbabile per il momento che scoppi una guerra che nessuno ha intenzione di combattere. Ma di certo questo non sarà l’ultimo scontro lungo i confini.